«Una famiglia disfunzionale». Così, lo psichiatra chavista Jorge Rodriguez ha definito il comportamento dell’alleanza di opposizione: che ha annunciato di voler abbandonare il dialogo con il governo e di non voler tornare al tavolo il prossimo 13 gennaio. E che chiede la testa di Maduro. La Mesa de la Unidad Democratica (Mud) ha accettato di sedersi a discutere il 30 ottobre, sotto l’egida del Vaticano, della Unasur e di alcuni ex presidenti, guidati dallo spagnolo José Zapatero. Il 12 novembre sono stati sottoscritti alcuni punti: pace e rispetto dello Stato di diritto e della sovranità nazionale; verità, giustizia e riparazione delle vittime; il tema economico-sociale e la costruzione di clima di fiducia; l’agenda elettorale.

«SU CINQUE PUNTI, la Mud ne ha violati quattro e mezzo», ha aggiunto Rodriguez. Ma perché trovare un’intesa tra le forze in campo in Venezuela sembra più complicato del processo di pace in Colombia? Perché, a un anno dall’aver ottenuto la maggioranza alle elezioni parlamentari del 6 dicembre, l’opposizione non è riuscita a portar fuori il paese da quella che definisce una «crisi umanitaria» che necessiterebbe addirittura di un intervento esterno per mettere sotto tutela la sovranità del paese?

Perché quello in corso nel paese bolivariano è prima di tutto uno scontro per il potere, uno scontro fra due modelli di gestione di un territorio ricchissimo di risorse: che custodisce le prime riserve al mondo di petrolio e di oro, che possiede immensi giacimenti di altri preziosi minerali e poi acqua, biodiversità… Risorse che, prima dell’irrompere di un’inedita alleanza «plebea», di «moltitudini» organizzate da Hugo Chavez, erano appannaggio dei soliti noti, ovvero dei poteri forti che ne avevano fatto un perno fondamentale del loro «cortile di casa». E che mai si sono rassegnati a non potersi appropriare dell’intera torta.

INUTILE GIRARCI ATTORNO: per quanti errori e approssimazioni abbiano potuto fare i governi di Chavez e di Maduro, la questione è sempre la stessa: dal Brasile, all’Argentina, dalla Bolivia all’Ecuador al Messico, quando i cordoni della borsa si stringono per la crisi strutturale che attanaglia il modello capitalista, nel cappio ci capita sempre il collo dei settori popolari. Chi non ci sta, deve soccombere o resistere, e la battaglia – anche nei paradigmi di questo nuovo secolo – è senza quartiere. E perché violare le regole di un sistema democraticamente eletto dev’essere più “democratico” che usare gli strumenti legislativi consentiti per difendere il benessere delle popolazioni tradizionalmente escluse dalla partecipazione e dai diritti? Anche qui, si tratta di una scelta di campo in cui ognuno spara le proprie bordate: il campo bolivariano contro le grandi imprese private, contro i poteri finanziari (che in Venezuela condizionano il mercato monetario con il cambio parallelo e impongono un’altra direzione di marcia al Mercosur), contro le multinazionali che dirigono attacchi cibernetici e sabotaggi. E contro le grandi concentrazioni editoriali e gli interessi che muovono «la coprofilia dell’informazione», come l’ha definita il papa Bergoglio.

Ma anche la linea «bolivariana» di Bergoglio ha i suoi limiti o i suoi mal di pancia: in Vaticano, dove l’estrema destra venezuelana diretta dai falchi Usa è ben rappresentata e nel «dialogo» a Caracas, dove la bilancia rischia di pendere da una parte sola. Quella del cardinal Porras, uno degli attori del golpe contro Chavez del 2002.