La forza letteraria e direi politica delle parole di Paola Regeni suscita ogni volta stupore e ammirazione.

«Azioni, non commemorazioni»: ha detto la madre di Giulio, il ricercatore italiano ucciso al Cairo, davanti alla Sottocommissione per i diritti dell’uomo del parlamento europeo, mercoledì scorso.

Le commemorazioni non sono inutili, tutt’altro, ma si portano appresso, fatalmente, un che di rassegnato e di irreparabilmente consunto. Consummatum est: resta, e può persino rinnovarsi, la memoria, ma rischia di essere una memoria definitivamente esausta.

Che può resistere come un simulacro, anche potente, ma non più vitale. E le «azioni»? Paola e Claudio Regeni, nella loro condizione di «genitori erranti nelle istituzioni» (così si sono definiti), hanno voluto, una volta ancora, pronunciare parole limpide e ineludibili, chiedendo al governo italiano e all’Unione europea di «aumentare la pressione sull’Egitto per ottenere un’indagine trasparente».

E, ancora più concretamente, hanno sollecitato l’Italia a «dichiarare l’Egitto paese non sicuro»; a «sospendere l’attività interforze per il controllo e la repressione interna, l’invio di armi e apparati bellici»; e a «monitorare i processi contro attivisti, avvocati e giornalisti che si battono per la libertà in Egitto».

Queste ed altre richieste evidenziano quanto sia drammaticamente ampio lo scarto rispetto ai comportamenti del governo italiano, che sembrano, nei confronti del regime egiziano, troppo spesso lenti fino all’inerzia e incerti fino all’acquiescenza. Com’era inevitabile, il presidente del Consiglio si è sentito sollecitato – poteva essere altrimenti? – e ha replicato con parole che, ahinoi, sono apparse esili e vaporose: «Nei prossimi giorni cercheremo di nuovo di capire quale sia lo stato dell’arte e l’aggiornamento della situazione, e sentiremo i genitori di Giulio».

Risulta davvero troppo poco, troppo poveramente inadeguato rispetto a una tragedia di tale entità e significato, alle implicazioni che comporta sul piano interno e su quello sovranazionale, e a un atteggiamento – quello del regime egiziano – che riproduce una sua coerente e sorda ostilità.

Sì, certo, il nuovo ambasciatore italiano al Cairo non si è ancora insediato e, dunque, resta formalmente «richiamato» nel nostro paese: ma a questo primo atto, risalente all’8 aprile scorso, non ne sono seguiti altri.

Non dubito che il governo stia conducendo le sue iniziative e non nego che queste richiedano necessaria riservatezza, saggia prudenza e tempi opportuni, ma è fortissimo il rischio che tutto ciò venga inteso dall’interlocutore (il regime di Al-Sisi) come una forma di subalternità.

Quali sono state e sono le «forme di pressione» che il ministro degli Esteri ha detto ripetutamente di voler esercitare?

E, mentre viene chiesto da più parti che quel paese sia dichiarato «non sicuro», come spiegare che il sito della Farnesina, alla voce Egitto, non contenga il minimo accenno alla sorte subita da Giulio Regeni? Appena un particolare, ma che rivela l’eco stridula di un’ambiguità irrisolta.

Nessuno, penso, può ritenere che il ruolo geo-strategico dell’Egitto verso la minaccia rappresentata da Daesh o l’importanza delle relazioni diplomatiche e commerciali tra i due paesi siano particolari trascurabili, ma la domanda vera è un’altra: è possibile che lo scenario politico-militare della regione e i legittimi interessi economici riducano la questione della tutela dei diritti fondamentali della persona (di Giulio Regeni e di migliaia e migliaia di anonimi egiziani) a una insignificante questione di dettaglio?

Se così fosse, non si tratterebbe solo di una ulteriore e crudele frustrazione per i genitori di Regeni, bensì di una dichiarazione di resa del nostro governo e di un disastroso fallimento della politica tutta.

* L’autore è senatore del Pd