Ha cercato di tenere sua figlia «in una bolla» aspettandola fuori dalla scuola tutti i giorni, fino alla fine delle lezioni, per tre mesi; in quell’attesa «si è fatto soffrire addosso dagli altri», forse il suo solo modo di soffrire per la morte di Lara; all’alba di una grossa fusione finanziaria «ha mandato affanculo dio in terra» preparandosi a perdere il lavoro. Ha riconosciuto di essersi comportato con una «certa leggerezza» con la donna che aveva salvato dall’annegamento. Si è sentito superficiale come suo padre, si è fatto aprire gli occhi da sua figlia. Ha scoperto di non aver inventato «il caos calmo» quando in rete ne ha trovato duemila occorrenze e una definizione su cui riflettere: «una caccia che non finisce mai, una caccia dove da un momento all’altro il cacciatore può trasformarsi in preda». Soprattutto, ha imparato a diffidare anche delle sue convinzioni perché ha avuto la prova che possono portarlo «molto lontano dalla verità». Con questo bilancio Pietro Paladini chiudeva il primo romanzo di cui era protagonista, Caos calmo di Sandro Veronesi (Bompiani 2005, Premio Strega 2006).

Era un bilancio, come è ovvio, solo parziale e tutto proteso a un’apertura, a un futuro di cui nulla ci veniva prospettato. Ciò che contava era che Pietro Paladini avesse iniziato a interpretare comportamenti e pulsioni in primo luogo suoi, in un’autoanalisi opportunamente fatta di osservazioni, dialoghi, ricordi, divagazioni. Segno dell’apertura non solo virtuale, ma strutturale, in cui culminava Caos calmo era la domanda con cui Pietro chiudeva immaginarie comunicazioni telefoniche con la ragazza del cane, con l’ex marito della donna salvata, con la cognata e il fratello, con quel «voi» cui talora si era rivolto nel suo incedere monologante, chiamando in causa anche i lettori: «E ora mi passate Lara, per piacere?».

Qualcosa rimaneva da dire, dunque, alla madre di sua figlia. E doveva essere qualcosa di legato alla difficile sofferenza per la sua morte improvvisa, o forse all’imminente riorganizzazione del quotidiano.

Nel nuovo romanzo di Veronesi, Terre rare (Bompiani, pp. 413, euro 19,00), scopriamo che a distanza di otto anni Pietro Paladini ha lasciato Milano per tornare a vivere a Roma dove era nato: ha venduto i mobili d’antiquariato e rinunciato all’appartamento con il parquet in posatura ungherese che Lara aveva voluto sul modello di una villa di famiglia a Bellagio. Nessuna continuità con un passato di agi ed eleganza: a Roma vestiti ordinari e mobili dell’Ikea, linoleum in cucina e sedie spaiate, una «dissolvenza quotidiana in mansioni banali». E un lavoro non prestigioso: venditore per una concessionaria di cui è socio, la Super Car, specializzata in ritiri di auto prese in leasing da insolventi. Ora ha una nuova compagna, D., «coatta purosangue a sedici sedicesimi» madre di due ragazzini dai nomi coatti, Eden e Kevin, figli di un drogato altrettanto coatto da cui si è con fatica separata e che nella sua luminosa gioventù si faceva chiamare Kocis, adesso intristito, all’occorrenza ladro e violento. Da anni Pietro non vede il fratello Carlo, fuggito in Uruguay, condannato in contumacia per bancarotta fraudolenta, diventato un «idolo degli antagonisti della grande finanza, Occupy Wall Street, No Global e compagnia bella, per come ha beffato il sistema bancario».
La cognata Marta, ancora a Milano con i tre figli avuti da tre padri diversi, ha rinunciato alla carriera di attrice e ha un lavoro fisso come operatrice di ripresa per Telelombardia: ha «raddrizzato la propria vita», sorprendentemente ora è una donna «occupata, organizzata».

In Terre rare, rispetto a Caos calmo, i personaggi sono un po’ più numerosi e gli eventi più densi: il ritmo delle vicende è serrato, tutto si svolge in un paio di giorni, incalzanti sono le prime ventiquattro ore – Un giorno disumano, prima parte del romanzo – in cui Pietro Paladini perde tutto, figlia scappata di casa, socio truffatore, compagna, concessionaria, computer, patente e cellulare. La macchina narrativa è solida, i congegni funzionali – si tratti di analessi, digressioni, ironia o critica sociale; consumata è l’esperienza che fa chiudere ogni capitolo con un amo che susciti curiosità e agganci alla lettura. Riempie decisamente il tempo, questo nuovo tratto della vita di Pietro Paladini, che fa le cose giuste anche quando sbaglia: commette errori e grossolanità in un modo che comunque chiede l’adesione del lettore, tanta è la sua schiettezza, il suo comportamento da non-eroe. Picchia la sua compagna, eppure non riesce a essere del tutto ripugnante; si fa ingannare da un socio delinquente in combutta con una banda di rumeni che tra loro lo chiamano «il minchione», il «mincione» o addirittura il «micione», eppure non è risibile né penoso del tutto. Il lettore non può non osservare che Pietro arriva ad autoaccusarsi con lucidità, che entra nell’illegalità solo perché costretto da una furiosa combinazione di casi, che per la figlia nutre profondissimo amore. Non passano inosservate le debolezze e i desideri che lo rendono comune (ma non troppo, quel tanto che possa favorire immedesimazione). Non è possibile dimenticare che Pietro è laureato in filosofia, che ha l’abitudine di riflettere, di scrutarsi e interrogarsi, che ha voluto resistere alle lusinghe di potenti finanzieri e che stigmatizza il lusso inutile e «standardizzato» di alcuni alberghi milanesi, quello che ha trasformato «la classe dirigente di tutto il mondo in una colonia di viziati parassiti incapaci di vivere senza una SPA nelle vicinanze». E neppure può sfuggire che Pietro ama le parole, tanto da dire alla figlia piccola, in Caos calmo, che «se uno non è siciliano» la parola meschina «è molto ricercata», e da indurla, appena un po’ cresciuta, in Terre rare, a sparare agli orribili «attimini», a sterminarli tutti – «PUM !» –, anche quelli pronunciati dalla professoressa di italiano. E così, di nuovo, ci troviamo di fronte a un vero prototipo d’eroe, figlio di un’intera tradizione del Novecento e di un autore scaltrito.
A tener viva l’attenzione del lettore, e a gratificarlo, concorrono sia i motti che rubricano i capitoli, citazioni di eterogenea provenienza, sia la diffusa sensualità – la bellezza della compagna coatta e del suo sontuoso tatuaggio acchiappasogni a tutta schiena, la fisicità torbida e cupa di Rosy Malaparte, la bontà tiepida di sole dei «pomodori al pomodoro», l’espressiva blesità di un’avvocatessa potentissima –, sia la stratificazione delle esperienze di vita e dei ricordi (la morte dei genitori, la nascita della figlia, l’antico amore con la cognata) entro il presente pienissimo, corposo, del flusso narrativo in prima persona: vibratile, riflessivo, rimuginante, instancabile, sempre in presa diretta. E duttile, visto che conosce qualche cambiamento di prospettiva quando Pietro prova a calarsi nei panni di un altro, o subisce interferenze di rumori esterni che interrompono a singhiozzo i dialoghi o s’incuneano nel monologo della coscienza.

In questa nuova tappa della ricerca di sé intrapresa da Pietro Paladini, le terre rare della seconda ed eponima sezione si fanno emblema di una condizione esistenziale e di un procedimento per attingervi. A svelarlo è la confessione che alla fine Claudia fa a suo padre, soluzione didascalica che ribadisce fiducia nel rapporto tra generazioni, necessità di smascherare le rimozioni e lavorare sul trauma. Solo dopo questa Spannung Pietro sarà sul punto di pronunciare – in un luogo prosaico che è il più semplice stigma dei tempi, un supermercato – ciò che da anni, fatalmente, avrebbe dovuto ammettere.