poesia

Lettere dalla fine di Nadia Agustoni esce in questi giorni per Vjdia editore, piccola casa editrice specializzata in edizione d’arte e poesia (pp. 168, euro 12). Di che fine si tratta? Dopo Il mondo nelle cose e Il peso di pianura (entrambe edite da Lietocolle) ora la fine a cui si riferisce Nadia Agustoni sembra rimandare a eventi traumatici, e indotti. Renata Morresi li rintraccia in prefazione: «la catastrofe delle alluvioni in Liguria o l’alienazione (e il pericolo) del lavoro in fabbrica, l’isolamento degli anziani in una clinica o la marginalità dei poveri». Questo è ciò che è e ciò che sembra all’inizio, ciò su cui cala la forza trasfigurante della poesia. Si tratta della fine del nostro spazio-mondo, segnato da incuria, infamia, strapotere. Eppure, nota Renata Morresi, le lettere qui nominate sono lettere di resistenza.

La raccolta ha una forma aperta. A volte i versi corrono verso la prosa, a volte si impennano alti. La raccolta si compone di sezioni in cui scorrono poesie come biglietti numerati: biglietto n°1, n° 2… fino a sette. E tra questi biglietti, un notes e alcune lettere della fine: la fine II, e la fine III. In nota l’autrice ci avverte che i biglietti numerati sono un personale ricordo dell’intensa lettura di Pier Vittorio Tondelli. Scopriamo che nella poesia i volti vanno tra le frasi, e come in un cassetto portato a cielo aperto, troviamo un’immagine, frammento-ricordo d’un documentario sull’attacco chimico alla città curda di Halabja e sull’uso dei gas contro la popolazione civile. Renata Morresi in prefazione rintraccia nella poetica di Nadia Agustoni rispondenze con quei poeti italiani che hanno percorso la poesia attraverso un’istanza etica, e si riferisce a figure ineludibili come Giuliano Mesa, o Roberto Roversi: in Lettere della fine scorre rinnovata l’aria popolare di L’Italia sotto la neve, e ritroviamo quel grumo inscindibile in cui si addensano poesia altissima e illuminante denuncia storica. Viva nel libro è anche la lezione delle grandi autrici-attiviste americane: Adrienne Rich e Grace Paley (a cui Agustoni dedica il libro) rappresentante del «piccolo paese di cittadini danneggiati, fragili e tormentati». Identità marginali, sì, ma in sé potenti, ribelli.

Lettere dalla fine è poesia in movimento. Troviamo tracce di questo movimento nella biografia dell’autrice, nel suo lavoro di ricerca, nella sua scrittura, nella poesia, nella prosa. Nel suo attivismo, nel suo lavoro operaio. E troviamo forte la traccia di questo movimento nella sintassi dei versi, così frequentemente spezzati, così sospesi, lasciati lì, in silenzio. Il noi, «tra fabbrica e fine», è un noi muto come le lepri sulla statale, ma è un mutismo che usa lo sguardo. In Oratorio della fine la poesia di Agustoni sgorga alla vista d’un affresco di Lorenzo Lotto sulla vita e sul martirio di Santa Barbara: sull’affresco cinquecentesco cala un tempo nuovo, una foto-storia a noi contemporanea: una donna, un’immigrata forse; l’abito una pozza di blu sul prato. Su tutto s’irradia un’infanzia, gli anni in cui i nomi crescono con noi (salverò i quaderni il libro più limpido), la casa, la fabbrica, i compagni di lavoro (era di paglia il futuro). Ogni cosa si mostra dall’interno della storia, consunta dalla storia, perché, sì, la storia si ripete, si ripete / non è mai stanca.

La storia ammala e la scrittura lo testimonia: l’infante così acceso all’inizio lascia il posto al vecchio di La fine III, ischemie, mentre intorno trasfigurato, continua il nostro mondo: una guerra, un gol di mano, le Falkland, una frontiera, Billy Bud, Genova. E i bagliori dei poeti amati, le citazioni di Virginia Woolf, Oscar Wilde, Pessoa. Sì, da una fine, da quel punto che verrà – già da ora – dal rumore dei reparti arrivano lettere, biglietti, poesie. Nota Renata Morresi: «Diversamente da Luigi Di Ruscio, che affermava potentemente il suo essere tutto incarnato, e quindi cristico, e quindi pienamente umano, Agustoni reclama il diritto alla disincarnazione, a guardare se stessa e i compagni di lavoro da fuori». Esseri e mondo come toccati da una «creaturale compassione» da quel lutto candido da cui provengono queste Lettere della fine. Che poi è sempre la penultima fine.