È inevitabile che il racconto di una spedizione scientifica nelle estreme regioni settentrionali porti con sé un intero bagaglio di immaginazione mitica, nutrito da almeno un secolo di letteratura. Il genere sembra conoscere da un paio d’anni una entusiastica rinascita: si ripubblicano cronache e resoconti di esploratori leggendari, eroi romantici dalle alterne fortune, avvinti dal fascino insidioso del luogo geografico sfuggente per eccellenza: lo ricordava in un’efficace sintesi il saggio di Peter Davidson L’idea di Nord (traduzione di Giovanni Tarantino, Donzelli 2005).

La potenza vertiginosa della natura nordica ci accoglie intatta anche nel romanzo di Willem FrederikHermans Alla fine del sonno, uscito nel 1966 ma pubblicato solo ora in Italia nella bella traduzione di Claudia Di Palermo (Adelphi, pp. 310, euro 18,00); tra le sue pagine, tuttavia, la tensione epica è crudelmente rovesciata nel suo contrario. A spingere il protagonista verso l’ignoto non è l’inquietudine utopistica che aveva mosso gli esploratori norvegesi Fridtjof Nansen e Roald Amundsen, ma un groviglio di ambizioni confuse, insidiate da conflitti identitari. Già nella Casa vuota (Bur 2005, a cura di Laura Pignatti e con una postfazione di Cees Nooteboom) il protagonista si guardava allo specchio e vedendocisi dalla testa ai piedi, mentre si faceva la barba, così ragionava: «Chi si limita a pensare è in contatto con se stesso soltanto a metà. Vedere vale di più, vedere è tutto. Vedere in se stessi un altro significherebbe salvezza, ma si rimane sempre dalla parte sbagliata.»

Ora, il personaggio principale di Alla fine del sonno ammette di osservarsi spesso in uno specchietto incastonato nel coperchio della sua bussola, così piccolo che riesce a inquadrare solo un pezzo di faccia per volta; ma in quell’immagine parziale si può riconoscere, essa gli è fedele in qualsiasi circostanza, esorcizzando il timore che gli altri lo vedano in modo diverso (come accade nelle fotografie: «strane incarnazioni di cui, potendo, preferiresti declinare ogni responsabilità»).

Lo scarto tra l’opinione di sé e le immagini discordanti rimandate dallo sguardo altrui è forse il nodo centrale di questo libro, che si presenta sia come un romanzo di formazione, in versione parodistica e disincantata, sia come un racconto d’avventura, in forma antiepica e con coloriture infide: di certo, Alla fine del sonno sovverte entrambi i generi. Libro magnifico che porta benissimo i suoi anni, racconta in prima persona le vicende di uno studente di geologia, Alfred Issendorf (colui che si guarda allo specchio, appunto), intento a assicurarsi fama e onore dimostrando un’ipotesi ardita (in realtà del suo professore): che i kettle – laghetti poco profondi diffusi nella regione del Finnmark, all’estremo nord della Norvegia – siano crateri formati dalla caduta di meteoriti. Si mette dunque in viaggio dall’Olanda verso la Norvegia, dove intende fra l’altro riscattare la memoria del padre biologo, che era morto in un crepaccio quando lui era bambino, senza avere il tempo di farsi un nome (quanto sono importanti, i nomi, in questo libro!) nella comunità scientifica.

Ma già all’inizio del viaggio – mentre tenta di estorcere certe indispensabili foto aeree a un professore semicieco o forse sordo, collega del suo relatore o forse suo rivale, amichevole ma poi improvvisamente svagato o piuttosto ostile – Alfred sente i suoi passi divenire sempre più incerti: «ora sono accerchiato. Irrimediabilmente costretto in difesa, bloccato come un asse storto in un mozzo danneggiato.»
Per molti versi incarnazione di una originale versione dell’antieroe novecentesco, Alfred è dotato di uno sguardo ironico e disincantato su di sé e sul mondo, con tutto il corredo delle indispensabili nevrosi e dei relativi scarti di personalità. Sebbene sia convinto della vacuità dell’ambiente accademico in cui si muove, non riesce a sottrarsi a un’ambizione ostinata quanto infantile: «Più di ogni altra cosa desidererei trovare un meteorite, un frammento proveniente dal cosmo e vorrei che fosse composto di una materia mai rinvenuta sulla Terra. La pietra filosofale o quantomeno un minerale a cui verrà dato il mio nome: Issendorfite».
Ma più cerca di tenersi davanti agli occhi una grande meta, più ogni sforzo collettivo e individuale gli appare vano. «Qual è la mia cattedrale? Io ne sto edificando una di cui non so niente e quando sarà finita io sarò morto da un pezzo e nessuno saprà mai del mio contributo.»

Nonostante difficoltà e ritardi di ogni genere, in cui legge funesti presagi, Alfred riesce finalmente a incontrarsi con i suoi compagni di viaggio e a partire a piedi verso il nord, in una terra brulla e piena d’insidie, specie per uno che viene da «un paesino tutto fango e argilla, senza una montagna che sia una».
Camminano con lui tre ricercatori norvegesi: Qvigstad, Mikkelsen e Arne, con cui Alfred divide la tenda, e che dimostra nei suoi confronti una generosità e un atteggiamento protettivo sistematicamente misconosciuti. A mano a mano che la spedizione s’inoltra nella regione subartica, le ambizioni personali e scientifiche vengono messe in ombra dalle necessità immediate e dalle difficoltà pratiche. Tanto che, nonostante il fascino di certe descrizioni, anche il lettore intenzionato a perdersi nei grandiosi paesaggi nordici si ritrova dissuaso dai frequenti ricorsi all’anticlimax: «Siamo circondati da ogni lato da montagne. È come se marciassimo sul fondo di un’insalatiera con sopra un coperchio di nuvole nere, che è scivolato leggermente, lasciando aperta una fessura da cui entra la luce del sole, gialla come ottone.»

Il sole non tramonta mai, «le nostre ombre si dissolvono. Mi prende un assurdo desiderio di oscurità totale. Dormire quando fuori c’è luce ha l’effetto di dimezzare ogni ora di sonno.» Le zanzare sono un tormento infernale e né l’equipaggiamento, né la preparazione fisica dell’olandese sono all’altezza di quel viaggio a piedi. «Un sudore saturo di sale mi cola lungo le narici, mi fa bruciare le labbra spaccate.»
Dunque, Alfred suda, non dorme, cade nei fiumi, si ferisce e si sente ogni giorno più incompreso, escluso, perfino vittima di un complotto: la catastrofe si avverte vicina. Se il titolo dell’edizione italiana Alla fine del sonno è un richiamo immediato al viaggio (al cui termine è lecito aspettarsi il gran vuoto della disillusione), Non dormire mai più, il bellissimo titolo originale, funzionava forse meglio a aprire uno squarcio mitopoietico nel camminare allucinato del protagonista, a occhi aperti, verso qualcosa di identificabile con il caos.