«Il cinema non è realtà». Di questo è certo Lisandro Alonso, regista argentino non ancora quarantenne che inaugura stasera alle 21.30 all’Arcobaleno Film Center la 22esima edizione del FilmMakerFest di Milano (www.filmmakerfest.com) con il suo ultimo lavoro, presentato a Cannes Jauja, il primo in cui si serve di una star di Hollywood. Protagonista del film è infatti Viggo Mortensen, ma la sua presenza non altera la natura «avanguardistica» del cinema di Alonso, già autore di quattro film che gli hanno conquistato una buona base di ammiratori: Liverpool, Fantasma, Los Muertos e La Libertad. Il cinema non è realtà, e benché questa espressione sia per certi versi assiomatica il fine ultimo di Jauja sembra essere proprio di mettere in evidenza questa natura ineludibile della settima arte. La Patagonia, anche se mai nominata, è l’ambientazione e l’altra protagonista principale del film, con i suoi paesaggi al contempo desertici e rigogliosi e la suggestività a loro connaturata e resa bene dalla fotografia di Timo Salminen.

Viggo Mortensen è il Capitano danese Dinesen, che si trova in Patagonia insieme alla figlia adolescente Inge per dare aiuto all’esercito argentino contro gli indigeni del luogo, in un melting pot linguistico e culturale in cui l’americano di padre danese Viggo Mortensen può dare una prova straordinaria del suo multilinguismo.
L’epoca storica in cui il film è ambientato, verso la seconda metà dell’ottocento, e la stessa opposizione tra «mondo civilizzato» e indigeni, nonché tra Europa e Nuovo Mondo, riconducono Jauja ad una dimensione western, benché sui generis, accennata anche dal significato attribuito alla parola del titolo dal regista. Luogo di fantasia, ed anch’esso mai menzionato dai personaggi, Jauja è una sorta di vagheggiato Eldorado – ci dice Alonso – sulle cui tracce gli uomini si sono solo attirati sventure. La recitazione straniante, le sequenze fatte di lunghissime pause e silenzi, l’estetica «iperrealista» – come la chiama lo stesso Mortensen – hanno attirato su Jauja i più svariati riferimenti: da Sokurov a Tarkovskij fino a Herzog e la sua passione per la natura selvaggia.

Ma Alonso, laconicamente, si limita ad osservare che «i registi che con i loro film creano un mondo unico, come appunto Tarkovskij, Bresson, Ozu e tantissimi altri, sono quelli che mi interessano di più». È Viggo Mortensen a spingersi oltre, affermando «in termini di ritmo, di respiro del film, delle inquadrature, forse Jauja potrebbe ricordare film come Madre e figlio di Sokurov o Stalker di Tarkovskij». Ma molto presto le dinamiche della vicenda virano ancora sul leitmotiv western: la fuga di Inge con un soldato argentino è ciò che mette in moto la ricerca del padre, vagamente memore di Sentieri Selvaggi, nel deserto della Patagonia.

Inge è forse stata rapita da un ex ufficiale dell’esercito disperso nel deserto – Zuluaga – di cui si vocifera che sia ora a capo di una banda di efferati indigeni che guida nelle loro razzie travestito da donna: l’incombenza della sua figura, benché tenuta più sullo sfondo del colonnello Kurtz di Apocalypse Now, sprofonda la storia in un cuore di tenebra «a cui fa eco il paesaggio stesso» – conferma Alonso – che da assolato si immerge gradualmente nel crepuscolo.
E con il buio gli stessi avvenimenti si fanno più misteriosi, magici ed onirici. «La sensazione di aver assistito ad un sogno verrà solo più avanti nella storia – nota Mortensen – ma fin dal principio c’è sempre qualcosa che ci attrae ed al contempo ci dà la sensazione che qualcosa sia fuori posto». Cosa accomuna infatti il deserto selvaggio della Patagonia e un castello in Danimarca ai giorni nostri, in cui ha luogo la sequenza finale? La risposta è affidata allo spettatore, e certo Alonso non intende suggerire nessuna interpretazione, mentre gli unici fili rossi sono costituiti da un cane incontrato nel deserto e da un soldatino di latta di proprietà di Inge. In definitiva però al cuore di Jauja c’è il viaggio, il percorso, il cammino senza meta certa di Dinesen che ha la natura del destino come nei western metafisici di Monte Hellman, in cui il «camminamento» senza destinazione evidenziava la distanza tra Storia e Mito, così come quella tra il Cinema e la Realtà.