«Ci serve un imam per la preghiera del venerdì nella moschea dei turchi», bisbiglia al telefono Davide Piccardo, presidente del Caim (Coordinamento associazioni islamiche di Milano e Monza). Inizia così il nostro viaggio tra le comunità islamiche milanesi che contano 100 mila fedeli (420 mila in Lombardia) e una sola moschea ufficiale a Segrate. Ma ormai è giunta l’ora che le cose cambino, siamo alla vigilia di una data storica: l’approvazione del bando per la costruzione di tre moschee milanesi. Nei luoghi di culto informali di Cascina Gobba, via Padova, viale Jenner si attardano migliaia di fedeli, di ogni provenienza, dalla Turchia al Bangladesh fino al Senegal. Sarebbero 700 i luoghi di culto informali in Italia ( tra capannoni, appartamenti e sottoscala), 380 secondo i dati del dossier Unar-Idos che ha fotografato i musulmani italiani.

Mentre ci avviciniamo alla stazione Centrale per raccogliere Usama el-Santawy, l’improvvisato imam di questo venerdì, ci fermiamo in via Cavalcanti. Le strade sono animate da decine di migranti per cui sembra più di ascoltare gli accenti egiziani di Abdin e Sayeda Zeinab che di essere a due passi da viale Monza. Lasciamo sulla destra l’Abspt (Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese), mentre su via Lanza sorge la libreria islamica Iman. Gli Emirati arabi uniti hanno inserito l’Alleanza islamica italiana, che ha sede qui, tra le organizzazioni terroristiche. È controversa la sorte invece dell’ong britannica Islamic Relief, che avrebbe dato prova della sua estraneità nel coinvolgimento in atti terroristici.

Proprio in via Cavalcanti, la comunità bengalese ha inaugurato discretamente il Milan Muslim Centre. I tappeti sono sistemati alla rinfusa, di colori tutti diversi, un doppio vetro oscurato, separa il lato delle donne. «Siamo pronti a costruire un mirhab (che segna la direzione della preghiera, ndr) sulla parete», ci spiega uno di loro. Questo seminterrato ospitava un tempo la Sac, fabbrica di manifesti cinematografici. La reazione degli inquilini del palazzo non è stata serena quando i primi andirivieni di migranti nel cortile hanno ispirato una visita a sorpresa di un assessore e dei condomini nel luogo di preghiera.

«Abbiamo iniziato impugnando ogni decisione della giunta regionale che impedisse la costruzione di moschee nonostante ci siano spazi destinati ad altri luoghi di culto», comincia Davide. A quel punto è intervenuta la magistratura, che in mancanza di un accordo tra Stato e Islam e di una legge sulla libertà religiosa, ha dato il via libera all’apertura di queste moschee informali come centri culturali con attività secondaria di culto. In questa moschea clandestina, già si contano cinquanta iscritti e fervono le discussioni sull’agenda del centro, il pubblico di riferimento, che non sarà solo bengalese (ecco il perché del nome in inglese) e sugli arredi, dai tavoli alle scarpiere, rigorosamente Ikea. Secondo Unar-Idos, nel 2014 sono un milione e 600 mila i musulmani italiani e dispongono solo di quattro moschee riconosciute: Ravenna, Roma, Colle Val D’Elsa e Segrate appunto. Il bando milanese per l’assegnazione di progetti riguarda tre aree della città: il PalaSharp (ex palazzetto dello Sport del quartiere di Lampugnano), Rogoredo e via Padova. «Sono quattro anni che ci lavoriamo, il progetto iniziale prevedeva la costruzione di dieci moschee. Il piano è stato gradualmente ridimensionato a causa del continuo ostruzionismo della Lega Nord (l’ultimo episodio risale allo scorso 24 novembre, Igor Iezzi si è presentato in Consiglio comunale indossando un burqa per protestare contro l’avvio della gara) e ormai non raccogliamo granché rispetto alle idee iniziali», commenta Davide. A preoccupare il Caim è la Carta dei valori, voluta dall’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato, che, secondo questo gruppo che simpatizza per la Fratellanza musulmana, mette alle strette la comunità islamica italiana, rispetto ai praticanti di altre religioni.

Ma a preoccupare ancora di più è il Comitato per l’Islam italiano (voluto da Roberto Maroni). «È un gruppo di islamofobi che ha fatto mettere all’ordine del giorno, su indicazione di Matteo Forte di Comunione e liberazione, di inserire nuovi criteri per la valutazione dei progetti, appoggiando continui rinvii per aggiungere nuovi elementi discriminatori», ci spiega Davide, aggiungendo che questo percorso è stato avallato dal Coreis (Comunità religiosa islamica italiana), che definisce «i musulmani italiani di destra». Il Consiglio comunale ha più volte rinviato l’approvazione della gara d’appalto che dà il via ai sessanta giorni per la presentazione dei progetti. «Ormai il testo della delibera è pronto ed è stato discusso venerdì in via definitiva, ma la spaccatura all’interno del Partito democratico sembra insanabile. Vorrebbero approvare criteri stringenti per la formazione della Commissione che giudicherà i progetti e stabilire una discussione sui contenuti dell’accordo con i vincitori della gara da parte del Comune», ci spiega Davide. «Il sindaco Giuliano Pisapia non ci ha mai incontrato. Il nostro riferimento è l’Assessore alle politiche sociali, Pierfrancesco Majorino», rivela.

Per la preghiera del venerdì, raggiungiamo la comunità culturale Milli Gorüs di via Maderna. Questa grande moschea sorge nel seminterrato di un palazzo (a due passi c’era una discoteca gestita da una marocchina e da un cristiano, poi chiusa). Ci offrono un tè mentre Usama e il responsabile del centro, che viene dal Mar Nero (ma si sentono anche chiari accenti kurdi), si accordano sui tempi della preghiera. Gli archetti e il minareto erano appena abbozzati prima che venissero abbattuti e si ripiegasse sull’associazione culturale, che nasconde una moschea. Poco dopo, lasciando tutti a bocca aperta, Usama ha iniziato la sua predica in italiano: «Non siamo qui per fare differenze in base al modo in cui ci si inginocchia…E ringraziamo, anche se con grande difficoltà, di avere un centro dove pregare», dice Usama che emana non poco carisma. La predica del giovane egiziano di provincia, di seconda generazione, è quasi un rap che ricorda l’estrema precarietà in cui vivono queste decine di fedeli di ogni provenienza che si prostrano per raccogliere una parola che rassereni la loro estrema precarietà, che fin qui ha impedito di far sentire la loro voce.