Folco Quilici ha viaggiato l’intera vita ovunque fosse possibile: per mari, deserti, ghiacci e monti. Ha ottantasette anni e di recente ha pubblicato il suo ultimo libro per Mondadori: Umili Eroi è l’amaro resoconto sullo sfruttamento degli animali per gli umani fini della Grande Guerra. Lo incontriamo nel suo studio. Affacciato sugli artifici di Roma, vicino al respiro concesso alla mente dallo scorrere del Tevere. È tempo di bilanci.

È sempre lo stesso viaggio?
Dal 1947, quando iniziai, sembra passata un’eternità. Penso alla prima volta in Sicilia, sull’isola di Favignana. Funzionavano ancora dei meccanismi, come la tonnara, che resistevano uguali da millenni e che sarebbero svaniti all’improvviso. Mi rendo conto di aver goduto dell’occasione di assistere in soli settant’anni a quelle trasformazioni storiche che un tempo si potevano osservare sulla scala dei secoli. Ormai si è calata la saracinesca sul senso di un passato che io ho scoperto muovendomi. Si viaggia di più. Gli antichi egizi già lo facevano. Ma era un privilegio di ricchi e mercanti, la fortuna di uno su mille.

Avevano comunque il gusto del meraviglioso…
A noi la natura non fa paura. Il terrore ci coglie a tratti: in Italia con il terremoto, in Florida con gli uragani. Non sappiamo tuttavia come misurarne la forza. E ci sentiamo inspiegabilmente superiori. Ho seguito la notizia del fallito atterraggio del lander Schiaparelli su Marte. Pareva quasi l’offesa di un Pianeta rosso e maleducato. Ci stiamo abituando all’impossibile e ci stupiamo di fronte al presunto imprevisto. Di altre meraviglie avremmo bisogno.

Non ama chi sfida la natura?
Detesto l’alpinismo estremo, un insulto a una natura costretta a diventare luogo di morte anche quando non lo è. Capisco gli esploratori con l’ambizione di arrivare per primi. Rischiare la vita su una parete dove sono stati in cinquemila lo trovo stupido.

La sua Ferrara ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la letteratura di viaggio. Da Boiardo a Ariosto e Tasso…
Ho visitato la mostra ferrarese sul Furioso. È magnifico Ariosto quando descrive il paesaggio nella prospettiva del volo e le sensazioni provate da Ruggiero e Astolfo mentre cavalcano l’Ippogrifo. Mi impressiona la poesia che sa anticipare la scienza.

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Rimpiange il passato?
Il mio, a volte, è stato lamento. Ho pianto sulla rapida decomposizione della società polinesiana: pochi contatti in qualche anno sono bastati per snaturare una società baciata da una natura che nemmeno un artista poteva cogliere. Il modello realizzato da Carlo Rambaldi per lo squalo di Ti-Koyo e il suo pescecane, che avremmo venduto a un bar di Tahiti, suscitò infinite risate nei polinesiani, tanto che ci decidemmo presto a usare un vero «tigre». Rambaldi sarebbe diventato bravissimo pure con esseri partoriti dalla sua fantasia, ma imitare il movimento di un pesce e dei suoi occhi è altra cosa.

Uomini e squali. Il male sta nella storia oppure nella natura?
È la vita a essere cattiva. Gli animali sono tutti aggressivi, condizionati dal rito del nutrirsi. Un’idea innata della violenza è radicata anche nella Terra: eruzioni, tempeste, terremoti. Le armi, tuttavia, le ha inventate l’uomo. La Ferrara degli estensi è stata pioniera nell’uso di quelle da fuoco, bombardando Polesella nel 1509 e Ravenna nel 1512. Eppure l’archibugio, che Ariosto chiama machina infernal dolendosi del commiato dei cavalieri, è innocente senza intervento umano. E probabilmente il carnefice del futuro non impugnerà coltello, fucile o bomba. Ucciderà con l’economia.

Lei ha esperienza diretta degli incubi del Novecento. Suo padre è morto facendo la guerra in Libia da giornalista, abbattuto in volo con Italo Balbo dalla contraerea italiana, nel 1940…
Sedici anni prima, Nello Quilici lavorava presso il Corriere Italiano di Roma. Matteotti era scomparso e mio padre aspettava un taxi lungo la Nomentana, alle due di notte. Fu affiancato da due suoi colleghi, che gli offrirono un’auto per tornare a casa. Rientrò e parcheggiò nel giardino. Vanni, mio fratello maggiore che aveva cinque anni, andò a giocare fuori e tornò insanguinato. Mio padre ispezionò l’auto e trovò il sedile posteriore ricoperto di sangue. Quello del deputato socialista. Denunciò l’accaduto e si licenziò dal giornale.

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E dopo divenne collaboratore di Italo Balbo, che gli affidò la direzione del «Corriere Padano» di Ferrara. Suo padre odiava gli aerei, eppure amava viaggiare.
Da sfollato, lui ormai morto, lessi i suoi libri sull’America, la Spagna, la Libia. Mi piacevano soprattutto le montagne e i deserti. La passione per il mare nacque per inventarmi un lavoro. Finita la guerra, un amico milanese mi spinse a immergermi con i racconti delle sue vacanze all’Elba. Coprii la mia fotocamera con una custodia subacquea e capii di essere stato tra i primi a pensarci. Migliorai progressivamente l’attrezzatura fino a ottenere l’incarico per girare Sesto Continente, nel Mar Rosso. Lì divenne evidente quanto fossi attratto più dai pescatori yemeniti, eritrei e sudanesi che dal mare. Il pescatore isolato, diversamente dal cacciatore, è un caso deprimente e unico. Il vero pescatore ha una barca e dei compagni. A questo pensavo. Il viaggio successivo fu in Polinesia. Erano i suoi ingenui abitanti, aggrediti dai commercianti di corallo cinesi e dal governatorato francese, a intrigarmi. Mi fu lasciata una rara libertà. Alberto Grimaldi, il produttore, era troppo impegnato con i film di Pasolini e Fellini per controllare i miei.

Non solo mondi lontani. Lei si è occupato anche di Italia…
I francesi dell’Elivision brevettarono una macchina che permetteva di ottenere riprese fisse dall’elicottero. Così furono possibili le quattordici puntate di L’Italia vista dal cielo. Spiegai ai finanziatori della Esso che per il commento di ogni regione ritenevo opportuno coinvolgere un grande scrittore. Per esempio Calvino, che collaborò anche alla sceneggiatura di Ti-Koyo, rappresentò la Liguria e Frassineti l’Emilia-Romagna. In questi giorni ho ritrovato una lettera di Sciascia. «Nulla è più nuovo di quanto ti ho scritto», mi diceva. «Ti mando tutto, metti quello che vuoi». Ci stavamo presentando. Lo avremmo fatto per un anno. Non c’era fretta, il risultato fu buono.

Fernand Braudel era ancora più sistematico…
Con Braudel ho realizzato il mio miglior lavoro: la serie Mediterraneo. Pretese una puntata propedeutica sui paesaggi, perché «non si può parlare d’Europa se non si capisce che va dalla Sicilia alla Finlandia». Sapevamo che la sua unità è fatta di grandi differenze e andammo in giro a cercare i sostenitori dell’utopia europeista. Lévi-Strauss mi disse, in sostanza, che l’uomo europeo non esiste. Obiettai che la popolazione degli Stati Uniti è composta da uomini che, seppur provenienti da ogni angolo del mondo, avevano saputo scegliersi una nuova patria. «Sì – mi rispose – ma in Europa viviamo da migliaia di anni negli stessi differenti luoghi».

Quell’Europa che ha rincorso in territori sfruttati il feroce mito del buon selvaggio, cercando un fascino morboso nella povertà.
La nostra povertà è la più terribile, perché ha come contrappunto i palazzi del potere e della ricchezza. Il povero europeo non costruisce una relazione con i suoi simili e con la natura intorno, ma sogna di emulare il ricco. Ricordo i pigmei, osteggiati dai colonizzatori e dai colonizzati. Reprobi vaganti nel buio delle più profonde foreste. Non erano però abbrutiti. Alberi, animali, uomini li denigravano. Loro reagivano con la dignità di chi resiste a un destino. Non esistono più.

Abbiamo costretto alla guerra la natura stessa…
Gli amici di mio padre avevano combattuto nella Grande Guerra e tra loro ne parlavano sempre. Me ne ricordai quando dall’elicottero, filmando il Veneto, vedemmo ovunque le macerie. Ci furono milioni di vittime. Uomini, api, canarini, piccioni, gatti. E muli che «corrono per ogni dove grondando sangue e nitrendo», come annotava sul diario dal fronte il tenente Lebel Bruschelli.