Per Shahzia Sikander (Lahore 1969, vive e lavora a New York dal 1997) «l’arte deve essere un vettore e il disegno è lo strumento per pensare e realizzare quello che è uno spazio infinito». La carta è sempre il punto di partenza per costruire le sue opere, un viaggio che non smette mai di stupire, fluido e coinvolgente dove i diversi piani di lettura s’intersecano, introducendo a una narrazione fuori dagli schemi.

Il suo limite, in termine di fisicità e fragilità, viene superato dall’artista pakistana-americana nel momento in cui il veicolo poetico del disegno emigra nell’animazione e nella proiezione. Entrando nella dimensione spaziale della luce si sfida un altro tabù, affermando la sua capacità di trascendere il tempo. Su questo tema Sikander, a cui il Maxxi di Roma ha dedicato la prima personale in un museo italiano (Shahzia Sikander. Ecstasy and Sublime, heart as vector, curata da Hou Hanru e Anne Palopoli, in corso fino al 15 gennaio) è stata anche protagonista di una serie di incontri organizzati in collaborazione con la Rhode Island School of Design e l’American Academy in Rome. Uno dei quali – Beyond Drawing/Oltre il disegno si è svolto nella sala Guido Reni del Maxxi, a poca distanza dalla galleria 5 in cui sono esposti circa trenta lavori – da Parallax, SpiNN, Gopi Contagion, Portrait of the artist Series al site specific The Six Singing Spheres – realizzati con linguaggi e medium differenti: disegno, miniatura di tradizione indo-persiana, video e animazione digitale. Opere caratterizzate da una koinè di riferimenti storici, letterari e politici che danno voce con estrema coerenza a temi universali – identità, condizione postcoloniale e cambiamenti geopolitici.

Shahzia Sikander, Nemesis (Courtesy The Artist e MAXXI)
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In «Unveiling the Visible. Lives and Works of Women Artists in Pakistan», afferma che il nonno paterno per il suo rigore e il pragmatismo e suo padre, per le incredibili storie che leggeva, come le favole di Korney Chukovsky, sono state figure di riferimento. Altrettanto nutriente è stata l’esperienza del viaggio: i suoi genitori erano soliti partire in automobile alla scoperta del Pakistan. Qual è il ricordo più vivido, il senso dell’avventura o l’apertura verso l’alterità?
Per me l’arte è avventura, è la vita stessa. Negli anni ’70, in Pakistan, l’automobile era il mezzo più comune per viaggiare. Mi sembra che fosse il 1976 quando i miei genitori andarono a Londra in automobile, attraversando l’Iran. Si metteva tutto nella macchina e si partiva per esplorare. Sì, certamente, sono cresciuta con questo tipo di esperienza. Io stessa amo molto i viaggi in automobile, soprattutto guidare. Quando vado in un posto nuovo, prendo in affitto un’auto. Così sono costretta a negoziare il rapporto con il luogo stesso. L’idea del viaggio consente di attivare tutta una serie di elementi, referenze storiche e di sottocultura.

Bashir Ahmed è stato il suo insegnante di miniatura all’Nca-National College of Arts di Lahore, da cui sono usciti altri grandi artisti tra cui Rashid Rana, Imran Qureshi, Aisha Khalid, Risham Syed. Come scrive il critico Quddus Mirza, lei è stata la prima «a dare una svolta non solo alla pratica pittorica, ma dha definito una nuova via della sperimentazione, in molteplici direzioni». È stato l’intuito a spingerla oltre i limiti della pagina miniata?
Sì e no. L’intuito – oggi come allora – per me è una sorta di metro che mi consente di misurare le cose. Ma non c’è solo quello. Nel 1986 studiavo arte, letteratura, lingue ed ero affamata di conoscenza. A quell’epoca in Pakistan c’era la dittatura militare di Muhammad Zia-ul-Haq e per una ragazza studiare arte al National College of Arts era considerato immorale. Penso che sia stato anche il contesto a spingere la mia personale curiosità verso l’arte, ma con un approccio investigativo. Già dai tempi in cui frequentavo il Convent of Jesus and Mary, del resto, tutti sapevano che avevo talento per il disegno. All’Nca i canoni artistici erano legati principalmente all’astrattismo e all’espressionismo astratto; i metodi d’insegnamento erano di stampo occidentale e un po’ obsoleti, perché la scuola stessa proveniva dalla tradizione inglese. Ora la miniatura è diventata l’elemento più rappresentativo dell’identità pakistana in giro per il mondo, ma a quel tempo non era così. Quasi nessuno seguiva le lezioni di miniatura – si sosteneva un esame e si faceva qualche copia – perché richiedeva tempi molto più lunghi rispetto ai segni veloci che si potevano tracciare, magari senza pensare. Io, invece, ero molto interessata al suo linguaggio. Intanto, perché essendo legato alla tradizione era considerato lontano dall’avanguardia e poi era collegato a uno status sociale più basso, rispetto a quello di chi studia e parla fluentemente l’inglese. La miniatura non mi appassionava solo al livello tecnico, ma aveva un’implicazione più profonda: mettere in discussione ciò che sapevo della tradizione. Non è stato facile a 16-17 anni sedere 18 ore al giorno, come ho fatto per 5 o 6 anni, lavorando duramente per imparare. Avevo bisogno, prima di tutto, di mettermi alla prova, ma ero anche sicura che ci sarebbe stato qualcosa di interessante che avrei scoperto all’interno del processo.

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«The Scroll», sua tesi di laurea, è incentrata sui temi di trasformazione, migrazione e identità. È anche un’opera autobiografica in cui lei si ritrae come una giovane donna in shalwaar kameez all’interno dell’architettura domestica. La miniatura ha un ritmo narrativo che non è lineare ed è in un certo senso monumentale, considerando i 152,4 cm del foglio di carta wasli fatta a mano su cui si sviluppa…
L’opera è proprio un simbolo di trasformazione. Mi sono interrogata sul modo in cui inserire l’elemento dell’ambiguità, che appartiene alla fase nebulosa della giovinezza. Intanto, partendo dalla domanda su come potessi essere fedele alla miniatura e alla pittura che erano rispettivamente l’una la mia materia primaria e l’altra, secondaria. Storicamente la miniatura è legata alla narrazione di eventi, memorie e storie, implica in un senso di documentazione. Storia e cantastorie sono veramente vicini. La miniatura suggerisce un mondo intero, ma fuori dalla cornice c’è quello reale. Nell’inserire la dimensione personale all’interno dell’illustrazione ho voluto pensare al di là dei bordi, che sono anche quelli che solitamente inquadrano le singole scene. In questo tipo di narrazione, in cui non ci sono confini tra una scena e l’altra, c’è un senso cinematografico che deriva dai film di Satyajit Ray, Merchant, Hitchcock e Godard. Un cinema in bianco e nero legato al mistero. Volevo poi tirare fuori l’arguzia, l’umorismo che c’è in me. Perché non bisogna essere troppo seri! È necessario usare se stessi come strumento di apprendimento: attraverso la curiosità ci si assume anche il rischio del fallimento.
La miniatura rappresenta tutto questo, è il mondo perfetto che è anche un mondo morto. Mi sono chiesta, appunto, come fare ad introdurre qualcosa da trasmettere alle prossime generazioni. Guardavo pure alla letteratura, alla poesia e soprattutto all’architettura, forse perché quando sono entrata all’Nca avrei voluto studiare architettura. Una grande influenza è stata quella di Louis Kahn, che ha progettato l’edificio del Parlamento dello Stato del Bangladesh a Dhaka o l’Indian Institute of Management a Ahmedabad (India). Dall’architettura mi viene sicuramente l’idea di spazio. Non solo in senso di scala e dimensione, ma – ancora una volta – in termini di possibilità.