Fra i luoghi comuni da sfatare c’è anche quello di un video militante quasi sempre rozzamente propagandistico, distrattamente o volutamente imperfetto, esteticamente sciatto, poco curato. Importante, sì, come tematiche, per le zone inesplorate che ha messo in luce, per la cosiddetta controinformazione e la sua utilità come strumento di lotta. Ma disattento alla cosiddetta forma. A parte, s’intende, grandi maestri, che sono sempre a parte. Bene, una serie di ricerche, approfondimenti, scoperte o riscoperte rese possibili anche da cura e restauri recenti (in Italia La Camera Ottica, Gorizia, la Cineteca Nazionale, Roma) consente da qualche anno di soppesare la portata innovativa anche in termini di linguaggio di una fetta di produzione audiovisiva degli anni Settanta, anni in cui si andava affermando il Video-Tape, sistema di ripresa e registrazione elettronica a disposizione di gruppi e di singoli. Anche qui alcuni maestri avevano mostrato come uso artistico e uso politicamente dissacratorio del video potessero essere intrecciati; ma a prevalere era la divaricazione fra “arte” e “militanza”, estetica e politica, importanza del processo e indifferenza verso il prodotto.

I tre lavori visti al Festival di Pesaro (una salutare dose di videoteppismo al giorno) nella rassegna curata da Federico Rossin con sguardo non neutrale e orgogliosamente “di parte” si possono considerare in tal senso un piccolo trattato di videosaggistica o videocritica, in sintonia con un’altra sezione di Pesaro 2016, quella curata da Adriano Aprà e dedicata ai “critofilm” sul cinema. E nello stesso tempo si presentano come riflessioni meta-mediatiche, giacché ognuno dei video, in modo diverso, mette in scena (ridiscute, usa positivamente, ridicolizza, svela, denuncia) lo stesso medium elettronico, dal gigante televisivo al duttile dispositivo portatile e di veloce comunicazione.

Nello stesso tempo si sfata un altro luogo comune, quello dell’arretratezza italiana in quegli anni e in questo campo. A parte la grande lezione di Alberto Grifi, con i suoi teneri, mai riconciliati, indisciplinati percorsi fra documento e sperimentazione, il collettivo “Videobase” (Anna Lajolo, Alfredo Leonardi, Guido Lombardi) ha saputo con grande lucidità guardare anche alle trappole della tecnica e dell’ideologia del video, nuovo medium di presunta facilità e immediatezza. “Una falsa ‘facilità’ (dichiaravano i tre autori in un’intervista a Enzo Ungari nel 1974), senza usare le attenzioni, la cautela e il rigore necessari…molti nastri non si potevano vedere né ascoltare…”. Il loro Lottando la vita. Lavoratori italiani a Berlino (100’, 1975) è una galleria viva di testimonianze di lavoratori italiani emigrati nella capitale tedesca – vita quotidiana, difficoltà, sfruttamento, azioni propositive e di autogestione – , si può ora vedere grazie a un recente restauro. E’ mirabilmente costruito, non solo per varietà di sguardi, piani, campi, e accuratezza di immagine ma anche per un gioco di scatole cinesi – o meglio, una natura in progress– che include la presentazione della prima versione del video sia a Berlino (all’inaugurazione della Casa della cultura italiana), di fronte ai protagonisti stessi dell’inchiesta, che a Francoforte, con la visione la raccolta di nuovi contributi. Il monitor, più ubiquo e versatile della classica proiezione e soprattutto direttamente collegabile alle registrazioni da mostrare, diventa fulcro di nuove considerazioni e consapevolezze, e uno dei protagonisti che punteggiano il lavoro stesso.

La televisione è invece al cuore di un’azione decostruttiva francese del 1976, Maso et Miso vont en bateau (55’). Anche qui un collettivo, tutto femminile stavolta: “Les Muses s’amusent”. E le Muse (la più nota l’attrice e anche autrice Delphine Seyrig, con le registe Carole Roussopoulos, Nadja Ringart, Ioana Wieder) davvero si divertono con feroce gioia e rabbia, canzonando masochista e misogino/a, deviando il titolo del film di Rivette (Céline et Julie vont en bateau) per fare a pezzi un programma televisivo sull’anno della donna proclamato dall’ONU e ridicolizzandone i protagonisti – l’allora giovane conduttore Bernard Pivot e ancor più la scrittrice Françoise Giroud, segretaria di Stato alla condizione femminile dal 1974. Qui tutta una serie di effetti grafici, ripetizioni, interruzioni, commenti salaci e graffianti fuori campo da parte delle “Muse” svela e svergogna l’ebete automatismo delle facili battute e snida idiozie, razzismi e maschilismi maldestramente camuffati. La decostruzione è impietosa, tanto che quando il video passò (con grande successo, per mesi) in una saletta parigina la Giroud ne chiese invano la sospensione: si tratta di uno smembramento violento, nello stile (ha commentato Rossin) di un “sabotaggio ludico e carnevalesco”. Una riflessione sul medium televisivo, cui le Muse dichiarano di volersi opporre con il nuovo strumento: “ci racconteremo con il video”.

Infine, terza “Lezione di storia” (questo il titolo del ciclo pesarese) il sorprendente video svizzero Züri Brännt (Zurigo brucia), del Collettivo “Videoladen Zürich”, 1980, 100’, che come accade coi lavori di “Videobase” sfata un altro mito, quello della lentezza e “noia” delle immagini militanti. Qui un montaggio colto e serrato, ricco di ogni tipo di inserti (“mescola Godzilla con Benjamin, il punk con Adorno”, commenta Rossin) e un testo poetico-politico lontano dallo stereotipo raccontano la mutazione alle soglie degli anni Ottanta, denunciando le politiche locali in campo culturale come sintomo di una barbarie dilagante e di una logica spettacolare e di profitto. E – paradossi e vendette della Storia – è stato proprio il Comune di Zurigo, bersaglio di allora, a restaurarlo, restituendocelo ora in tutta la sua rabbiosa e dialettica bellezza. Tre lezioni di storia, tre modi di pensare i media, tre aperture su una militanza audiovisiva eretica, rimossa, ancora in gran parte da scoprire.