Non c’è il notaio ma anche così la sensazione di déjà-vu è forte. Alla terza riunione fiume in due giorni con i consiglieri di quella che stava per diventare la sua ex maggioranza, per tentare di salvare capra e cavoli Virgina Raggi capitola ad una sorta di commissariamento. La sindaca di Roma cede all’aut-aut dell’inviperito Beppe Grillo che ieri ha lasciato all’alba la Capitale senza incontrarla, e accetta il diktat del disciolto mini direttorio romano che si riprende così il controllo sulla giunta pentastellata: fare fuori il capo della segreteria politica Salvatore Romeo che insieme a Raffaele Marra, arrestato per corruzione, aveva in mano le chiavi della macchina capitolina, e declassare ad assessore il vicesindaco Daniele Frongia, sulla cui amicizia Marra aveva fatto perno per ottenere la completa fiducia della prima cittadina.

A sera, una nota del Campidoglio formalizza le dimissioni: «Daniele Frongia ha deciso di rinunciare al ruolo di vicesindaco mantenendo le deleghe alle Politiche giovanili e allo Sport. Contestualmente Salvatore Romeo ha deciso di dimettersi dall’incarico di capo della Segreteria politica. A breve avvieremo una nuova due diligence su tutti gli atti già varati». Trasferimenti in vista potrebbero esserci anche per Renato Marra, fratello di Raffaele, appena promosso a capo della direzione turismo.

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La pace è fatta. Sugellata anche da Beppe Grillo in persona che subito dopo pubblica sul blog: «Roma va avanti con Virginia Raggi sindaco del MoVimento 5 Stelle».

Per tutto il pomeriggio di ieri però i 29 consiglieri e la sindaca si sono asserragliati a Palazzo Valentini, sede della città metropolitana, per trovare una exit strategy al pantano romano che rischia di inficiare le magnifiche sorti e progressive nazionali. Tutt’altro che una serena riunione di maggioranza, una vera e propria resa dei conti. Virginia Raggi ha preso più volte in considerazione l’ipotesi di «autosospendersi» dal M5S, almeno finché non fosse chiaro che su di lei non pende alcuna ipotesi di reato.

Un termine – autosospensione – giuridicamente vuoto ma che avrebbe sortito l’effetto di dare un segnale immediato di discontinuità, come preteso da Grillo, e contemporaneamente prendere tempo, come caldeggiato da Davide Casaleggio. Un modo per evitare il ritiro del simbolo d’imperio, invocato ormai a gran voce dall’ala ortodossa grillina ma osteggiato dal presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito e dal capogruppo Paolo Ferrara. Senza simbolo del M5S la giunta non avrebbe avuto infatti lunga vita, e il ritorno alle urne sarebbe stato inevitabile. Con l’autosospensione invece la consiliatura avrebbe potuto continuare, potendo contare sull’appoggio esterno dei grillini.

Una soluzione a dir poco artificiosa, degna dei migliori strateghi politici. Ma sembrava l’unica possibile. «Non mi sento più parte del M5S, non mi ci riconosco più», avrebbe detto più volte la sindaca (parole poi smentite dal Campidoglio ma senza grande convinzione) ai componenti di quel suo “raggio magico” che ora ha accettato di sacrificare.

Grillo non ha lasciato margini di dubbio: «Romeo si deve levare dal c…», avrebbe ordinato al telefono durante il tragitto in treno da Roma a Genova (evidentemente non era solo sul vagone). E Frongia va ridimensionato. I rumors parlano di un avvicendamento con l’assessore alle partecipate Massimo Colomban, l’imprenditore veneto che Casaleggio Jr aveva voluto in giunta poco più di due mesi fa. L’incubo del comico genovese è che si concretizzi quel rischio ipotizzato da ben «cinque avvocati», come avrebbe puntualizzato al telefono. Ma a parte l’eco delle parole di Grillo, trapela ben poco dalla blindatissima riunione di Palazzo Valentini. Il silenzio è totale perfino sui social. Roberto Fico annulla «L’intervista» da Maria Latella, i consiglieri escono alla spicciolata e rispettano la consegna del silenzio. Solo poche parole pronunciate da De Vito dopo la riunione con le quali il presidente dell’assemblea capitolina non smentisce la tentazione di Raggi di lasciare il M5S.

Il dèjà-vu è, appunto, forte. Appena un paio di giorni fa Paolo Ferrara aveva assicurato che quel che era successo con il Pd non si sarebbe potuto ripetere con «una comunità di fratelli impegnati per il bene» di Roma. Ieri sera a Otto e mezzo l’ex marziano dem Ignazio Marino, lo ha contraddetto: «Un anno fa un sindaco veniva tolto tramite notai e oggi un comico di successo commissaria il sindaco di Roma. Ma allora perché i cittadini dovrebbero andare a votare?».