«Ho già visto di tutto, compresi voi due», dice sarcastico il fotografo di matrimoni a un marito entusiasta, che sullo sfondo di una magnifica spiaggia israeliana gli chiede se ha mai visto niente di così bello, e indica rapito sua moglie abbigliata per il giorno «più speciale».

Si chiama proprio From the Diary of a Wedding Photographer, dal diario di un fotografo di matrimoni, il mediometraggio di Nadav Lapid presentato fra le proiezioni speciali della Semaine de la Critique, di cui il regista era già stato ospite – e quest’anno è anche un membro della giuria – quando nel 2014 presentò in concorso il suo secondo lungometraggio The Kindergarten Teacher.

E la sequenza di apertura di From the Diary of a Wedding Photographer sembra proprio la naturale continuazione della scena che chiudeva quel suo film, ambientata ai margini della piscina di un villaggio turistico in cui della musica a volume altissimo accompagnava l’uscita di scena del piccolo protagonista, poeta in erba rapito dalla sua maestra d’asilo.
Nel lavoro presentato quest’anno alla settimana della critica francese ci troviamo invece da subito nel vivo di un matrimonio, con della musica altrettanto alta e molesta che accompagna i balli di gruppo degli invitati.

Ma possiamo solo dedurre dove siamo dallo svolazzare dell’abito bianco della sposa, dall’abbigliamento dei presenti e dall’indicazione dataci dal titolo. Le immagini infatti sono confuse: ci mostrano il soffitto, i piedi del gruppo danzante. La voce narrante ci spiega che quello che vediamo è il primo matrimonio documentato dal protagonista del film, che all’epoca era talmente inesperto da non saper distinguere quando la telecamera fosse spenta o accesa.

Oggi, però, è uno dei fotografi di matrimoni più ricercati in tutta Tel Aviv, e il film ce lo mostra intento a lavorare con due diverse coppie di sposi. Come già in The Kindergarten Teacher le poesie del piccolo Yoav erano quelle che proprio Lapid scriveva da bambino, in From the Diary of a Wedding Photographer l’esperienza di fotografo nuziale arrivada «un momento molto buio» della vita del regista, come ricorda lui stesso.

Quasi tutti i matrimoni si concludono con la sposa che balla e il marito che vomita, ubriaco, sorretto generalmente dai suoi ex commilitoni dell’esercito, dice il protagonista. Ma nelle due coppie di sposi che il fotografo immortala sulla luminosa spiaggia in cui è ambientato il film sono le donne a sentirsi intrappolate, a voler fuggire. «Avrei potuto amare anche il fratello di mio marito, o uno sconosciuto, o anche te», dice una moglie con gli occhi lucidi appena celati dal velo quando il fotografo la allontana dal compagno per farle degli scatti. Lui la prende per mano e la aiuta a scappare, in una fantasia cinematografica che forse compensa il sogno che covava il regista quando, come recitano gli estratti del diario del titolo, gli sembrava di essere testimone del momento in cui si inscriveva su una pietra tombale l’epitaffio di un amore.

La macchina da presa scivola sui corpi femminili sottolineandone la vitalità intrappolata in un abito bianco, e il fotografo di matrimoni diventa l’insolito salvatore di due donne che non sanno come scappare. Anche il paesaggio paradisiaco su cui si stagliano gli sposi è diventato il fondale anonimo di una cartolina, il villaggio turistico in cui si conclude, invece che nascere, una storia d’amore.