Nella nota finale del romanzo L’ultimo arrivato (Sellerio, 15 euro), Marco Balzano scrive di aver intervistato, prima di metter mano alla narrazione, una quindicina di persone che tra gli anni Cinquanta e Sessanta emigrarono dal meridione d’Italia per arrivare al nord, finendo spesso nelle Coree di cui scrisse magistralmente, in presa diretta, Danilo Montaldi. Capita non di rado che i narratori cerchino di incontrare persone con una biografia che gli interessa, per poi arrivare a costruire il tipo di un personaggio verosimile, credibile, e che risuoni con la verità del dettaglio agli occhi del lettore. Ma il fatto di esplicitarlo pare, prima ancora che una dichiarazione di poetica, una dichiarazione di etica: si tratta di restituire alla coscienza, e in qualche modo di salvare, e redimere, tutte quelle vite che da un’emigrazione nelle Coree del nord Italia vennero sommerse, per scomparire. Del resto, rileggendo qualche anno fa Milano, Corea di Montaldi veniva da chiedersi dove fossero finite quelle esistenze, che piega avessero preso dopo quell’impatto iniziale. In qualche modo questo romanzo ce lo mostra.

Nel buco nero della fabbrica

Il protagonista della storia si chiama Ninetto Pelleossa, nome che risuona evidentemente di un sapore neorealista, così come va in questa direzione l’uso di un lessico dialettale che compare nel libro, per quanto in forma molto discreta. Ma non c’è nulla, qui, che voglia mettere la narrazione al servizio di una tesi: è il piacere della narrazione, a farla da padrona, una narrazione con passo sempre molto lieve. Questo è infatti un libro davvero bello e commovente. Perché la semplicità del linguaggio mantiene un equilibrio tale da essere molto intensa senza mai cadere nella banalità (esercizio, questo, assai difficile e spesso letale per i narratori), anche grazie a una sapiente costruzione narrativa.

C’è dunque Ninetto che scrive di sé, che scrivendo recupera e «salva» la sua storia: ed è la storia di un ragazzino che, accompagnato da un conoscente, emigra a Milano da un paesino della Calabria. Il mondo contadino entro il quale cresce Ninetto è reso con grande presenza, grazie a una lingua fatta di termini e metafore estremamente materiche, tattili, una lingua che è lì a mostrarci il mondo come lo vede e se lo immagina Ninetto. La famiglia è sfaldata, la madre in un ospizio, il rapporto col padre sempre più inesistente: è il maestro Vincenzo la figura di riferimento, quel maestro comunista che gli cita Rousseau («Il primo uomo che, avendo recintato un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile») e che gli regalerà un diario su cui scrivere. Perché scrivere è l’unico modo per non perdersi.

Ma quel diario non verrà riempito: prima la Corea, descritta nel romanzo, e poi lo sprofondo nella fabbrica, che è come un buco nero del libro. Riempie infatti oltre un trentennio di vita di Ninetto, ma essa è come cancellata. Nella narrazione non c’è descrizione di quel tempo di alienazione e sfruttamento: non c’è racconto possibile, per chi non ha trovato il modo di emanciparsi, essa non può venire parlata. Ed è proprio in questa assenza che si sente ancora più forte la sua dimensione nefasta, come un inferno in cui Ninetto è precipitato.

Vietato sbagliare

Poi, a un certo punto del libro, il fuoco su Ninetto si allarga, e si vede che la posizione dalla quale scrive è un luogo di reclusione. È ristretto, nel carcere di Opera, ed è provando a scrivere, finalmente, così come gli aveva dato mandato il suo amato maestro, che prova a liberarsi dei ceppi decennali della sua emigrazione, dello sfruttamento e dell’alienazione della fabbrica, di tutto un contesto che era reclusorio già prima di questa reclusione, che si configura dunque come un esito e un compimento.

Al fianco di Ninetto, fin dai primi anni milanesi, ci sarà sempre Maddalena, mentre tutto intorno la città si trasforma, e dalla Corea si va ad abitare negli alveari, dove adesso, a quarant’anni di distanza, ci sono prevalentemente i nuovi immigrati, che hanno preso il posto dei vecchi, e che dei vecchi hanno ripetuto gli itinerari e rivivono i problemi. Problemi dai quali Ninetto, vecchio immigrato, non è mai riuscito a uscire: perché, se proprio un «messaggio» nel romanzo c’è, è che ai poveri non è concesso sbagliare mai. E non si può sperare che vengano dal mondo il riscatto e la redenzione: sono cose che devi prenderti da solo, ripercorrendo il passato con occhi nuovi. Dove gli occhi nuovi sono la mano che finalmente scrive, e possibilmente lo sguardo innocente di una creatura di pochi anni che di quel mondo fatto di sofferenza, sradicamento e reclusione nulla sa e non dovrà mai sapere.