Questo di Marcin Koszalka si presenta come un thriller, ambientato a Cracovia nel ’67. Racconta di un caso a cui la polizia ha dato il nome di «Ragno rosso», con l’obiettivo di stanare un serial killer che ha già ucciso più volte. Karol, un giovane campione di tuffi dell’esercito scopre casualmente una vittima insanguinata abbandonata in un luogo deserto nei pressi di un luna park (luogo canonico dei delitti cinematografici) e pensa di avere individuato il colpevole. Ma siamo sicuri che si tratti proprio di un thriller? poco dopo esserci immersi nell’oscurità deserta della città, solcata a malapena da qualche autobus notturno, già dopo le prime scene di vita quotidiana del giovane Karol in seno alla sua famiglia e fuori, in appartamenti dalla metratura standard avvolti nel silenzio di rapporti non calorosi, appare il vero motivo dell’indagine: una ricerca, attraverso le immagini di una società del passato, di canoni e presenze del cinema polacco perduto, qualcosa che si è come dissolto e di cui probabilmente la nuova generazione comincia a sentire la mancanza o almeno con cui cerca di trovare un legame.

Era poco frequentato il genere poliziesco nella Polonia di quegli, per non dire sconsigliato (i registi ci dicevano che non c’erano né grandi delitti né grandi patrimoni da trafugare) aveva avuto in Machulski un raro esempio (con ironia giocosa). In quanto a piste segrete da seguire i cineasti erano diventati i maggiori esperti del genere allusivo capace di parlare di situazioni drammatiche, storture politiche, lotte sotterranee, al pubblico più vasto. Così sembra anche lo spirito che anima Marcin Koszalka, classe ’70, considerato il documentarista più interessante della sua generazione e che si mise in luce proprio con un lavoro sui meccanismi malati della famiglia e della sua in particolare («argomento tabù in Polonia» diceva).

Sono chiarissimi nel film gli indizi dai riferimenti precisi legati al più grande dei documentaristi, Kieslowski, che già ironizzava sugli aspetti della società di quegli anni (i motori provenienti dall’estero, i complessi rock del realismo socialista) riferimenti che appaiono come flash sul televisore domestico, l’attenzione alle professioni scientifiche, una lettura che emerge dai piccoli oggetti di scena dal valore pregnante (i bicchieri di vodka, il coltello, il martello anche senza la falce) per arrivare alle dissertazioni, ai conflitti morali, fino al «non uccidere». Almeno senza prove certe. Non è quindi solo un’indagine per ripescare da un passato remoto Kieslowski, ma anche Polanski (in fondo il suo Coltello nell’acqua era già stato un primo «thriller»), Wajda o Zanussi o perfino Ryszard Bugajski con il suo Interrogatorio censurato (e insieme a quello tutto ciò che poteva accadere nei sotterranei polizieschi).

Ragno rosso sembra una profonda seduta analitica in cui lo spettatore polacco si vede come in uno specchio: carnefice e vittima, una società che probabilmente non ha ancora fatto i conti con il suo passato. Karol si tuffa all’inizio del film e inizia un percorso e si riemerge nel ’78, anno in cui Wojtyla arcivescovo di Cracovia venne eletto papa.