L’originale fisionomia intellettuale di Vittorio Sermonti, poggiata su una scrittura insieme estrosa e sorvegliata, si è mostrata in varie forme, ma sempre tenendosi radicata alla medesima matrice: Sermonti incarnava un’Italia colta e civile, e la sua contemporaneità era quella di chi ha mandato a memoria i classici, letti fino a perdersi, dissimulando il lungo esercizio senza il quale l’estro non esiste.

QUEL CHE UNISCE tutta la sua opera, dai romanzi alle cronache, dalle traduzioni ai commenti è la sua magnifica dizione: non solo in senso tecnico – per chi insegnò tale disciplina a coloro che si preparavano in Accademia – ma com’è proprio di un uomo-teatro eloquente che amava la sua platea e proprio per questo sapeva tenere alta la barra nelle prove di somma divulgazione. La più nota di tutte, la lettura con commento della Commedia dantesca, rischia di lasciar passare senza il risalto che meritano le altre, come le traduzioni dell’Eneide di Virgilio e della Metamorfosi di Ovidio, che vanno misurate non col metro degli specialisti (a molti dei quali avrà pur suscitato qualche fastidio o invidia) ma con il metro della passione e della necessità.

SIA DETTO SENZA enfasi: le letture di Dante in pubblico di Sermonti hanno segnato l’inizio di una stagione notevole nella diffusione di Dante, perché Sermonti insegnava che la Commedia è un testo leggibile senza gli intralci consegnati da una tradizione scolastica animata da buone intenzioni ma non sempre con effetti corrispondenti. L’idea ingegnosa fu di radunare «trama», questioni testuali e critiche, osservazioni e sottolineature in un unico discorso di preparazione alla lettura del testo: una vera e propria esecuzione. E il discorso, ben congegnato, doveva filar via liscio come fosse un racconto o il capitolo di un romanzo. Funzionava. Quando sono entrate in volumi a stampa (con la supervisione di Contini per le prima due Cantiche e di Segre per il Paradiso), le schede di Sermonti sono andate a seguire i canti, recuperando, nella versione scritta, quella massima reverenza, sempre del resto preservata, per il grande libro.

Vittorio Sermonti insieme a Gianfranco Contini

Varie lezioni si possono trarre dal Dante di Sermonti. Una di queste lezioni dice che i grandi libri vanno considerati insieme da una prossimità massima e da una grande distanza, e che di volta in volta occorre aggiustare lo sguardo, mettendo a fuoco ciò che è davvero essenziale. La lezione conseguente è che la sola vicinanza o la sola distanza sono inadeguate se non pericolose, e rischiano di bruciare non solo chi guarda, ma anche l’essenza profonda e vera dell’oggetto osservato, alterandola senza rimedio.

Chi lo ha conosciuto da vicino testimonia di periodi di indigenza che hanno letteralmente costretto Sermonti a essere inventore di se stesso, a diventare un uomo-scrittura versatile ma sempre con cognizione del fatto, però dovendo ricavarsi da vivere dallo scrivere. Ed ecco dunque le collaborazioni ai giornali: una delle quali, almeno, ha esito in un volume dal taglio singolare, Dov’è la vittoria? Cronaca delle cronache dei Mondiali di Spagna; ma intanto sfilavano le sue prove narrative, come Il tempo fra cane e lupo e Giorni travestiti da giorni, di controversa ricezione come è per i libri di culto; si è aggiunto, nella passata primavera, tra narrativa e autobiografia, Se avessero, che recava un sottotitolo forse sfuggito a molti e che ora appare come una premonizione e come un pronostico: «Opera ultima» (aggettivo poi ribadito nella pagina finale: «mi torna in mente un’ultima ipotesi – ho detto “ultima”»).

Di ciò che fa un autore, Sermonti ha avuto la caratteristica più importante, la voce: che vuol dire una grana riconoscibile nonostante le variazioni e i vocalizzi a cui si presta di occasione in occasione. Come succede anche ai virtuosi di grandi capacità, può cogliersi in qualche sua pagina un’intonazione o una parola in accezione dalla quale si può dissentire, per gusto o sapere; ma anche in ciò, a guardare con occhio sgombro, si può poi individuare una ragion d’essere e, talvolta, una premeditata provocazione. La voce e l’intonazione sono state costantemente accompagnate dal vizio di leggere e di scrivere, come si può dire riecheggiando due suoi titoli, mutuati dalla celebre massima di Valéry Larbaud che in molti della generazione di Sermonti fecero propria.

ERA STATO PROMOSSO alle stampe dalla frequentazione di un paio di cerchie dove capitava di incontrare alcune delle migliori personalità del secondo Novecento. La prima, quella che ruotava intorno a Niccolò Gallo; la seconda quella di Roberto Longhi e di «Paragone», la rivista sulla quale esordì. Lì, gli incontri con vecchi maestri come Sapegno e Macchia e con i coetanei, da Bassani a Garboli (fratello di elezione per il quale tenne una commossa commemorazione in santa Maria del Popolo), da Parise a Pasolini. Gli capitava di parlare talvolta dell’esperienza avuta nel confronto con Contini nell’allestimento del commento alla Commedia. In copertina Contini sarà «supervisore». E Sermonti raccontava divertito come, accanto alle frasi da rivedere, talvolta Contini scrivesse «continico», con tanto di punto esclamativo.
Chi lo ha sentito non ha mancato di percepire, accanto a un certo compiacimento, una sicura ironia: doppia, se così era marcata fin dall’inizio dal Maestro degli Esercizî di lettura. E adesso doppiamente indimenticabile.