Come volevasi dimostrare! L’Istat ha certificato quello che consumatori, lavoratori e imprenditori sperimentano nella vita materiale: siamo ancora in recessione ed al più possiamo aspirare ad una «crescita zero».
Dal 2007 l’abbiamo detto e scritto in tanti su questo giornale: la crescita economica, la ripresa della nostra economia, è una pura illusione. Specchietto per i giornalisti-allodole che, incredibilmente, ci cascano ogni anno.

Dopo la dura recessione del 2009, 2011-2013, il massimo che ci possiamo aspettare è una crescita zero per quest’anno e per il prossimo. Ma, partiti e sindacati, dei lavoratori e degli industriali, insistono: ci vogliono misure per la crescita. Nessuno vuole prenderne atto, perché la «crescita zero», peggio ancora la recessione, ha un effetto dirompente, fa saltare equilibri sociali e visioni del mondo che hanno fatto da collant per tutto il Novecento. Il capitalismo senza la crescita economica avrebbe perso il consenso della popolazione, il suo mastice sociale. È, infatti, sul piano quantitativo dello sviluppo economico che il capitalismo ha vinto la sua gara con il socialismo reale, è grazie alla crescita economica che si è raggiunta, in passato, una pax tra le classi sociali in base all’ideologia, forte e vincente, che solo l’allargamento della torta avrebbe permesso il benessere per tutti. Chi parlava di ridistribuire «hic et nunc» la ricchezza esistente, veniva accusato di essere un ideologo e di volere impoverire tutti!

Secondo il noto geografo-economista David Harvey il sistema capitalistico, a livello globale, abbisogna di un tasso di crescita, nel medio-lungo periodo, di almeno il 3 per cento per riprodursi. Finora questo tasso è stato assicurato dalla crescita sostenuta dei Brics e di alcuni paesi «emergenti» del sud del mondo (Africa sub-sahariana, sudest asiatico ed America Latina). In Occidente, solo gli Usa hanno avuto un tasso medio di crescita poco al di sotto del 3 per cento , grazie alla «droga» della liquidità in dollari immessa nel sistema dalla Fed negli ultimi tre anni. Così anche il Giappone, dopo quasi vent’anni di crescita zero, ha visto una ripresa della sua economia grazie ad un incremento abnorme del suo debito pubblico, che per scelta politica intelligente rimane nelle mani dei giapponesi. In estrema sintesi: l’analisi dell’ultimo ventennio ci dice che le società occidentali a capitalismo maturo sono entrate nel grande lago della stagnazione. Possono cercare di venirne fuori ricorrendo alla droga finanziaria, ma in questo modo creano nuove bolle speculative che prima o poi esplodono e portano alla recessione. Non se ne esce e bisogna prenderne atto.

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Siamo entrati, infatti, nell’era della Lunga Stagnazione/Recessione, per ora a livello di paesi occidentali. Stagnazione economica che non può che produrre i suoi effetti sul piano sociale e politico. Se lo sviluppo economico poteva anestetizzare i conflitti sociali, condurli nell’alveo della concertazione tra le parti sociali, la stagnazione/recessione li fa esplodere in forme e tempi imprevedibili. Allo stesso tempo sul piano istituzionale, le vecchie forme della democrazia rappresentativa non reggono più in questa fase, soprattutto nei paesi come il nostro con una montagna di debito pubblico da scalare. Per sopravvivere alla Lunga Recessione il capitalismo finanziario abbisogna di approfondire lo sfruttamento di risorse naturali e spazi vitali, deve tentare di mercificare ciò che finora è sfuggito al suo controllo. Le istituzioni democratiche sono diventate un ostacolo, la democrazia un lusso dei bei tempi passati, della fase dello sviluppo economico.

Prendere coscienza che siamo entrati nella fase della «crescita zero» significa che per dare un futuro ai disoccupati, agli impoveriti, agli eterni precari, bisogna condividere la torta che c’è, migliorarne la qualità, ma non pensare più che si possa ancora puntare ad una sua crescita. La politica economica adeguata a questa fase è una sola: Ridistribuzione. Dei redditi, del lavoro, delle opportunità. Una politica fiscale veramente progressiva che riduca i gravami fiscali alla base della piramide sociale, una politica di riduzione progressiva dell’orario di lavoro, una politica che valorizzi le capacità ed i talenti all’interno di un grande progetto di innalzamento culturale del nostro paese. Questo non significa che non dobbiamo più aspirare ad avere un piano industriale, legato ad una strategia di riconversione ecologica, che ci porti a formulare un quadro di interventi mirati. Significa che non possiamo più pensare di risolvere i nostri più assillanti problemi aspettando Godot , cioè puntando solo sulla Crescita.

Ma, prima di tutto, abbiamo bisogno di uscire dal pensiero unico dello Sviluppo Economico come alfa ed omega della società, unico scopo dell’agire sociale. In breve: essere capaci di vivere meglio con meno. È lo slogan da anni sostenuto dai teorici e dai militanti della , che finora poteva essere visto come un bel giardino dell’utopia per pochi eletti.
La dura realtà della Lunga Recessione ci pone di fare i conti con questo obiettivo, sia a livello macro che micro, di tradurlo in atti concreti. Sia nelle scelte di politica nazionale ed europea, che nelle amministrazioni locali, quanto a livello di vita quotidiana. I segni di questo cambiamento radicale di prospettiva sono diffusi in tanti territori – dalle «imprese recuperate» ai «distretti dell’economia solidale» – ma si tratta di fare un salto di qualità , che coinvolga l’intera società.