Poco prima di morire, Jaroslav Seifert disse a un amico: «Io probabilmente rimango nella poesia ceca. Ma con me finisce un’epoca… Una nuova epoca ebbe inizio con Holan, il più grande tra noi, poiché aprì alla poesia ceca nuovi orizzonti, non ancora mappati, che neanch’io comprendo ancora». Non solo nella poesia ceca, ma in quella europea e mondiale, Vladimír Holan ha aperto un territorio ignoto, i cui punti cardinali sono abissalmente diversi da quelli conosciuti.

Si deve alla genialità di Angelo Maria Ripellino, suo ammiratore e amico, se il nome di questo solitario praghese ha fatto emigrare la sua fama dall’Italia in tutto il mondo.

Quando nel 1966 uscì Una notte con Amleto nella «bianca» Einaudi, tradotto da Ripellino, il mondo letterario italiano si accorse di trovarsi di fronte a un poeta al quale avrebbe poi sempre guardato con enorme rispetto se non con venerazione. Recensendo l’Almanacco dello «Specchio» 1973, che ospitava traduzioni di Serena Vitale dalla raccolta In progresso, dedicata da Holan a Ripellino, Pasolini parlò del compiersi di un miracolo: «Holan è entrato nel novero dei poeti letti».

In anni più vicini ai nostri, venne inaugurato un provvidenziale progetto di traduzione dall’ultimo tempo della poesia di Holan, quello che fa riferimento grosso modo alle quattro raccolte finali. Si deve a Marco Ceriani, con la guida attenta di Giovanni Raboni, l’insistenza su questo percorso scandito da diverse pubblicazioni in rivista e da volumi importanti, tra cui Il poeta murato (uscito nel 1991 per le edizioni del Fondo Pier Paolo Pasolini) e A tutto silenzio, apparso nel 2005 negli Oscar Mondadori.

L’approdo più recente, che negli auspici migliori dovrebbe reimmettere un gigante della statura di Holan nel circolo dei poeti letti in Italia, è un’antologia autenticamente corposa, che comprende più di trecento poesie di Holan con traduzione dal ceco di Vlasta Fesslová riportata in versi italiani da Marco Ceriani, pubblicata dalle edizioni Arcipelago con il titolo Addio? (prefazione di Giovanni Raboni, pp. 708, euro 38,00).

La storia di Vladimír Holan divenne fin da subito leggendaria.

Nella memorabile introduzione al libro con cui lo presentava, Ripellino parlò della «notturnalità» di questa poesia, divisa, almeno fino al dopoguerra, fra la sperimentazione barocca dell’enigma e la demonìa narrativa di un teatro metafisico insonne, con cui questo nuovo Giobbe, «salmista di un’epoca tragica», delimitava tra pietà e cupa ironia la condizione umana.

Inviso al regime cecoslovacco per il suo rifiuto di ogni compromissione e le sue dichiarazioni non conformi, dal 1948 Holan fu praticamente impossibilitato a pubblicare per i quindici anni seguenti. È da allora che, complice la scomparsa degli amici più cari e la necessità di opporsi allo stato delle cose tutelando la concentrazione necessaria alla sua scrittura, partì il suo leggendario isolamento nella casa con le finestre perennemente chiuse sulla Moldava, nell’isola di Kampa. «Incrocerò le parole…». Nacque così nella sua cerchia il mito di Holanesia, il mondo onirico del poeta murato in una casa spoglia, in penombra, con il suono dell’acqua del fiume a scorrere in sottofondo e la cantilena di Katerina, sua figlia, nata con la sindrome di Down.

Furono anni di spaventose ristrettezze economiche. Seduto nelle notti praghesi alla luce della lampada, mentre scriveva e traduceva dicendo «non conosco nessuna lingua ma le capisco tutte», inflessibile nei confronti di qualunque concessione al potere vigente, con l’immancabile sentinella di un fiasco di vino poggiato sul tavolo, Holan fu costretto per vivere a offrire anche trascrizioni a mano dei suoi versi, che vendeva con la dicitura Rhymes to be traded for bread. Gli amici si prodigavano per trovargli occasioni di guadagno.

Si moltiplicano i racconti sulle visite al solitario di Praga, o sugli incontri storici, come quello del 1949 con Dylan Thomas: i due poeti rimasero in piedi tutta la notte a bere e a parlare in un idioma creato sul momento, con regole specifiche e una mimica singolarissima, una lingua nella intonazione della quale il ceco e l’inglese si superavano a vicenda diventando inservibili e aprendo le porte a un’oltrelingua.

Mentre al cabaret Viola partivano, replicate per lunghi anni con successo, le recite del suo poema più celebre, Una notte con Amleto, con la morte della madre l’isolamento di Holan si accrebbe e la sua poesia scartò lontano dai poli del «verticalismo» e della «laidezza» che ne avevano caratterizzato l’avventura. Non sarebbe più uscito di casa per vent’anni. Ed è da qui che l’antologia di Arcipelago prende le mosse: da In progresso (scritta nel 1943-48 per esser pubblicata solo negli anni sessanta, che diventa così la raccolta di Holan più testimoniata nelle traduzioni italiane) e dagli ultimi due libri, elaborati fra il 1968 e il 1977 ma usciti dopo la morte del poeta nel 1980: Penultima e Addio? Parrebbero appunti presi in fretta nella forma disponibile e intima del diario, della nota di taccuino, ma sono anche tessuti di parole scostanti, immersi in quella «non parafrasabilità» che fu infallibilmente notata da Raboni nella sua prefazione del 1991, ora riproposta: «formulazioni e analisi, rigorose fino allo spasimo, del non formulabile e del non analizzabile…»

Tra queste pagine, enigmi in cui l’ordito dei concetti non si fa concettosità, con una torsione barocca continuamente sconfessata e deviata dall’uso ostinato dei puntini di sospensione; e in cui la chiusa sentenziosa non è un oracolo astratto e allineato a un’idea di verità ma una constatazione accanitamente terrestre e umana, inchiodata al paradosso, che «conosce non conoscendo». Già negli anni quaranta, nel diario pubblicato con il titolo Lemuria, Holan scrisse: «Che sia la musica, là dove comincio a non capire! Sogno il diario perduto di Orfeo sulla navigazione con gli Argonauti, sogno le partiture smarrite di Pindaro e il ritratto scomparso di Cecilia Gallerani». L’ultimo tempo della sua poesia è, nelle parole dei curatori, «l’estrema propaggine di quel “folle tentativo”» che fu per lui l’armonia atonale: richiamandosi alle tecniche della musica seriale, allineava e incrociava cellule di suoni minimi, groppi di fonemi, annodando crampi di senso sottratto in uno spazio reinventato fra pensiero e distrazione, scatenando cortocircuiti in una logica dell’inconseguenza apparente che chiama il lettore a ripensarsi dentro le sue nuove dimensioni. «Sempre cerchiamo il centro… Ma lui, come un punto, / è cieco… Cercando il suo cuore, / cerchiamo la cecità… E da tempo già ciechi, / siamo soltanto un tastare».

La sua è una poesia non euclidea che porta in sé anche un tratto taoista, la cui via indica innanzitutto la non ricercare di una via; una voce volta a volta evanescente o convulsa, febbrile, attonita e spietatamente saggia, che commercia con i piani più sfuggenti e definitivi dell’essere, dove il mondo e la presenza umana ormai non sono altro se non un fondale per le evoluzioni inafferrabili della coscienza che si scrive.

La sua vocazione più forte, in cui precipitano anche la maledizione del sesso e dell’infanzia irraggiungibile, è diretta alla scoperta della «morte prima della vita» come dimora primigenia ed eternamente perduta, sotto la sferza dell’irrevocabile: «Quello che bramate, e cercate, / quello che servite, e amate, / e invocate, perché vivete – / lo esaudirà per voi forse il destino, / ma voi non ci sarete…». Estremo erede di Baudelaire e di Rilke, Vladimír Holan si interroga sull’atemporalità come alternativa a un esistere materiato di muri (grande metafora ossessiva di Holan, così come la cecità e il buio). Ma la commedia tragica della conoscenza si risolve, negli ultimi vertiginosi testi, in un giro a vuoto, in un gioco a somma zero: «La vita è un ben leggibile mistero. / Meno male che non sappiamo leggere!».