Isole di Brissago, 1950; Locarno, 1987; Roma, 1987; Rancate, 1993; Rancate, 2012. E ora Rancate 2015. Nessun artista della compagine caravaggesca è stato investito da una simile compulsività espositiva quanto Giovanni Serodine. Al punto che, con un filo di autoironia, i due curatori della mostra aperta alla Pinacoteca Züst di Rancate, Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, hanno titolato il loro saggio di catalogo «Un’altra mostra di Serodine».

Da dove nasce l’idea di tornare sull’artista ticinese ad appena tre anni dalla mostra che nella stessa sede aveva curato Roberto Contini? Nasce da una circostanza del tutto occasionale: causa i lavori nella Parrocchiale di Ascona, la grande pala con l’Incoronazione della Vergine, capolavoro del Serodine, richiedeva un rifugio temporaneo. Che è stato trovato opportunamente nella grande sala al piano terra della Pinacoteca progettata dall’architetto ticinese Tita Carloni. Una volta trovatasi in casa questa straordinaria tela, la direttrice della Pinacoteca, Mariangela Agliati Ruggia, ha pensato che fosse opportuno scovare qualche idea per dar rilievo a quella presenza.

Così si è rivolta alla «premiata ditta» Agosti-Stoppa che a Rancate aveva già curato la mostra sul Rinascimento ticinese, per avere qualche suggerimento. E il suggerimento è andato nella direzione di fare la cosa più semplice e anche meno «presuntuosa»: radunare tutte le opere del Serodine custodite nel Ticino a far da corona alla grande Pala asconese.

Di qui la mostra che ha nel titolo, come viene sottolineato in catalogo, solo un nome proprio e uno stato in luogo: Serodine nel Ticino (sino al 4 ottobre).

Niente aggettivi, niente sottotitoli, niente enfatizzazioni, per una mostra che nel suo piccolo vuole essere un po’ anche una sfida di metodo, dalla campagna fotografica realizzata ad hoc da un unico fotografo, Roberto Pellegrini, per garantire riproduzioni nuove, di qualità e in particolare omogenee tra di loro; all’allestimento, realizzato (pro bono) da un’archistar come Stefano Boeri, sino al catalogo, di grande e affascinante sfogliabilità, pensato per esaltare l’impatto che la pittura di Serodine garantisce, e tenuto a prezzi popolari.

Perché sarebbe bello, ha detto la direttrice del museo alla conferenza di presentazione, «che in ogni casa ticinese ne entrasse una copia» (Officina Libraria, euro 29,00). Nel catalogo, grazie anche al limitato numero di opere, trova giusto spazio il lavoro di schedatura, che si offre come un completissimo punto riepilogativo per quanto riguarda la storia e la storia critica dei dipinti.

Una mostra quindi che non vuole essere altro che «una delocazione temporanea in grado di stimolare a scrutinii ravvicinati». In questa prospettiva la scelta allestitiva ha giocato una funzione decisiva: le opere sono state tutte raccolte nella sala grande al piano terra, l’unica in grado di accogliere i quattro metri della Pala di Ascona, e sono state appese a pari altezza: così entrando nell’ambiente, i cui muri sono stati tutti dipinti di nero, ci si trova (finalmente…) a tu per tu con i fantastici santi che stanno ai piedi dell’Incoronazione, mentre si vedono «volare» le altre opere serodiniane. Salendo sul soppalco che taglia a metà la sala, ci si trova invece «immersi in un lago di Serodine» (Agosti e Stoppa nel saggio), con le opere che non solo avvolgono lo sguardo da ogni parte, ma soprattutto si sono «abbassate» tutte a livello d’occhio, quasi invitandoci a entrare nel loro spazio, o tracimando con la loro pittura così impulsiva verso di noi. L’effetto è quello di una vera «installazione» che esalta la pittura di Serodine che, come scrisse Longhi con una delle sue intuizioni geniali e audaci, a volte produce l’effetto di «una capsula di dinamite gettata in un fornello». Verrebbe da sostenere che è proprio questo effetto, questa natura un po’ incendiaria della pittura di Serodine a tenere vivo e acceso tanto interesse su di lui. Il tema non è quello di vederne anticipazioni o parallelismi con artisti che stanno ben oltre il suo tempo. Il tema piuttosto è quello di seguire come Serodine abbia saputo uscire dall’osservanza caravaggesca, trovando una strada tutta sua, capace di conciliare libertà e intimismo.

La biografia dell’artista ticinese è una biografia piana, che non offre colpi di scena. Il fattore che la contrassegna è semmai opposto: un legame forte con la famiglia, da cui Giovanni non si stacca mai e che segue puntualmente in questo continuo pendolarismo tra Ascona e Roma. A Roma il padre Cristoforo lavora nel campo dell’ospitalità e della ristorazione, e tiene in casa con sé i figli che pur si occupano d’altro. Quando nel 1625 muoiono la madre Caterina e il fratello Bartolomeo, l’unico che seguiva il mestiere del padre, i rapporti di Giovanni con il resto della famiglia si rinsaldano, in particolare con Lucia, la cognata rimasta vedova, da cui Serodine avrebbe avuto anche un bambino, quel Giovan Battista che nel 1630 nominò erede di tutti suoi beni. La famiglia entra con molta naturalezza nel sistema iconografico di Serodine. Non c’è solo il meraviglioso Ritratto del padre, che Giuseppe Raimondi lesse come «vera poesia del cuore» sulla via di Courbet, e in cui Roberto Longhi colse «una potente nostalgia dei laghi e delle montagne lombarde» (in realtà il quadro venne dipinto ad Ascona, come evidenzia l’indirizzo della lettera sulla sinistra della tela).

C’è anche quella Sacra Famiglia, in cui il padre, più giovane, posa come san Giuseppe, la cognata Lucia presta il volto a Maria, mentre il Gesù Bambino sarebbe proprio Giovan Battista, nato dalla relazione tra Giovanni e la stessa Lucia.

Del resto questa mostra ha il sapore di un «ritorno a casa» di Serodine, non certo nel senso di una rivendicazione identitaria, che sarebbe davvero difficile immaginare per un artista che aveva metabolizzato senza problemi l’universalismo romano, ma semmai nel senso di un recupero su un piano sentimentale. Non a caso una delle sorprese della mostra consiste in quel dettaglio scelto per una delle due copertine del catalogo (l’altra copertina è con la testa di quel biblico san Paolo della pala asconese, che ha la capigliatura spazzata dal vento: al visitatore sta la scelta). Vi si vede un dettaglio di paesaggio della stessa pala, che sfugge, perché «bruciato» da tutta quella pittura al fulmicotone che lo circonda: è il dettaglio del Maggia che sembra adagiarsi nelle acque blu del Lago Maggiore, sotto un cielo intorpidito da nubi fuligginose. È come un fotogramma privato che si incunea con molta naturalezza all’interno di un contesto iconografico pienamente pubblico.

Che il rapporto tra Serodine e il suo territorio continui a funzionare, lo dimostrano anche i due casi critici più interessanti proposti dalla mostra. Il primo è il Cristo deriso, che è stato donato da Mirella Vivante Bernasconi alla Pinacoteca, proprio in occasione di questa mostra; il secondo è la Testa di Ragazzo, passata in asta a New York a gennaio di quest’anno e lasciata in deposito alla Pinacoteca dal suo acquirente (vedi articolo di Lea Vergine in questa pagina). Sono due casi critici di grande interesse perché il loro riferimento a Serodine fa comprendere meglio il profilo di un artista che non si chiude mai dentro una soluzione stilistica come cifra del suo dipingere. La sua uscita dall’osservanza caravaggesca si consuma all’insegna di una libertà e di un sperimentalismo, che, come ha notato Alessandro Bagnoli, ha una ricaduta anche nelle soluzioni tecniche a cui ricorre. Serodine infatti si prendeva molte licenze in materia. A volte rinunciava alla mestica, la preparazione gessosa sulla quale vengono stesi i colori (come nel caso dell’Elemosina di San Lorenzo di Casamari). A volte invece la pittura è di una consistenza aggressiva e quasi incendiaria, come accade nel meraviglioso San Pietro che legge, che fa parte delle raccolte della Pinacoteca Züst. Sono dettagli che inducono alla tentazione di farsi un film sulla figura di Serodine, un irregolare, un po’ dinamitardo, rimasto sino all’ultimo sotto il tetto di papà.