Alla fine la più amara delle spiegazioni possibili. Il terribile disastro aereo in Provenza è stato causato da un atto deliberato del copilota.

Non per motivi di terrorismo, una tra le ipotesi iniziali, ma per un «buio nella mente». Per un vuoto di emozioni e di pensiero, per un buco nella sua rappresentazione del mondo e della propria esistenza.

Andreas Guenter Lubitz, tedesco di 28 anni, aveva ottenuto il certificato d’eccellenza della Faa, l’organismo statunitense della sicurezza del volo. Gli piaceva correre e ascoltare musica elettronica. Gli amici lo descrivono come «discreto e felice». Le registrazioni, recuperate con la scatola nera, lo immortalano impegnato con il primo pilota in 20 minuti di chiacchiere, che gli inquirenti hanno definito «normali, giocose, cortesi». Nulla fa presagire la catastrofe, che arriva a «ciel sereno».

Nel momento in cui il comandante è uscito per andare in bagno, Andreas ha agito. Si è chiuso nella cabina di pilotaggio e ha condotto l’aereo verso la montagna. Otto minuti di volo durante i quali le invocazioni del comandante, che cercava di sfondare la porta, hanno ottenuto come risposta il suo silenzio: la morte psichica aveva anticipato la morte del suo corpo.

Non esistono interpretazioni del suo gesto che lo riguardano, l’avrebbe compiuto in modo anonimo, impersonale.

Non si può parlare di premeditazione (per quanto sia possibile che abbia progettato l’incidente) poiché non c’è stata decisione. Lubitz ha agito come un incidente meccanico (con la stessa inumana concretezza del fatto), all’interno di una concatenazione di eventi. Di questa concatenazione, che ha aperto un buco nella sua soggettività, non è stato che un ingranaggio.

Nella follia l’altro può essere ucciso per l’odio determinato dalla passione, quando la passione finisce in un vicolo cieco e non ha altra scelta che distruggere ciò che ama. L’atto disperato non afferma che l’oggetto amato non può essere di un altro, ma che non può disporre di sé, non può appartenere a se stesso.

È il fallimento umano come ce lo descrivono i poeti tragici: finire nel vicolo cieco di dover scegliere tra l’altro e la propria autoreferenzialità e uscirne uccidendo l’altro e/o se stessi.

Nella psicosi l’altro può essere ucciso perché percepito come minaccia per la propria esistenza, nell’ambito di un’interpretazione delirante della realtà e/o in uno stato di allucinazione.

Lubitz non era folle, né psicotico: non è la passione, ridotta a odio, né un’arbitraria e piena d’angoscia interpretazione/percezione del mondo ad aver determinato il suo agire.

La passione, che nella psicosi sopravvive come delirio, aveva da lungo tempo smarrito il suo alloggio dentro di lui, facendolo precipitare fin dalla sua prima infanzia in un terrore silenzioso, che restato incistato nello spazio psichico è sfociato nella «psicosi bianca».

Della «psicosi bianca» nulla avvertiamo, nelle relazioni convenzionali determinate dal «falso Sé» sociale che sostituisce i veri rapporti di scambio e ci estranea dai nostri sentimenti. Se si andasse sotto la superficie ci si accorgerebbe di un vuoto, percepito come silenzio irreale, che fa sentire che la coerenza e la coesione compatta dei comportamenti e delle parole nasce da una sottrazione di emozioni.

Tra il gesto del giovane pilota tedesco e il gesto dei terroristi arabi che sono andati a schiantarsi sulle Torri gemelle di New York, il confronto è d’obbligo e ci insegna molto.

A New York è andata in scena una catastrofe in cui l’odio e la passione contro l’altro riuscivano a dare un senso, folle e delirante quanto si vuole ma riconducibile a un conflitto, alla vita, perfino nel mostruoso agire di carnefici spietati.

In Provenza l’inerzia psichica, la ricerca di un senso di sicurezza basato sull’immobilità, la malattia mortale che si sta espandendo nel mondo intero a partire dall’Occidente, ha reso evidente, con un segnale che si spera non passi inosservato, che molto peggio del terrore, che è odio esteriorizzato, è il terrore interno associato al vuoto che ci abita per incapacità di vivere le nostre passioni.

Non c’e via di fuga che non finisca nel muro d’inerzia che ha preso il posto della vita.