Il più lontano possibile. Il referendum costituzionale si terrà domenica 4 dicembre, l’ultima data a disposizione del Consiglio dei ministri di ieri. Sarà un decreto del presidente della Repubblica a convocare formalmente il referendum, che si tiene perché la legge ri revisione costituzionale Renzi-Boschi è stata approvata dal senato e dalla camera con il voto favorevole di meno dei due terzi dei componenti. Tocca dunque agli elettori confermare o far cadere la riforma alla quale Renzi ha legato il destino suo e del governo (anche se ultimamente ha fatto più di un passo indietro). La legge sulla par condicio nell’informazione radio-tv scatterà solo all’apertura ufficiale dei comizi elettorali, il 20 ottobre.

Intorno a quella data – la scadenza prevista dalla legge è il 15 ottobre, ma negli anni precedenti il governo ha sempre ritardato – palazzo Chigi trasmetterà alla camera dei deputati la legge di Stabilità. E lì si potrà vedere quali e quante misure Renzi sarà riuscito a infilare nella manovra per cercare di risalire nei sondaggi. Che al momento non sono buoni e hanno ispirato al presidente del Consiglio il rovesciamento della sua strategia. Prima l’annuncio di voler votare «il prima possibile», «a naso il 2 ottobre», poi la scelta di rinviare al massimo. La giustificazione ufficiale è che bisogna mettere in sicurezza la manovra finanziaria, e dunque farla approvare almeno da un ramo del parlamento – la camera – prima che l’eventuale vittoria del No travolga tutto. Ma la giustificazione non regge più, anche a voler adottare il punto di vista della comunicazione di palazzo Chigi. Visto che adesso si spiega che non ci sarà alcuna ricaduta sulla legislatura, anche nel caso di sconfitta del Sì.
Secondo quanto previsto dalla legge sul referendum, il Consiglio dei ministri si sarebbe potuto riunire per fissare la data del voto già dall’8 di agosto, e in quel caso si sarebbe potuto votare anche ai primi di ottobre. Fissando il referendum il 4 dicembre, invece, Renzi non si è solo garantito la possibilità di utilizzare la legge di stabilità a fini propagandistici. Si è anche regalato tre settimane abbondanti di campagna elettorale senza regole (la par condicio entra in vigore il 45esimo giorno prima del voto). Evidentemente ha intenzione di sfruttarle fino in fondo e già dopodomani partirà per un giro di comizi, naturalmente da Firenze.

Per il voto a dicembre non ci sono precedenti in Italia, considerando ogni genere di elezione (politiche, amministrative, europee) o referendum, con l’unica eccezione del turno di ballottaggio in qualche grande comune nel ’93 e ’94. Il rischio consapevolmente corso dal governo è che molti elettori restino lontani dai seggi. Nei due unici precedenti di referendum costituzionale, che non prevede quorum di validità, l’affluenza si era fermata al 34% nel 2001, quando per confermare la riforma del Titolo V si votò in un solo giorno di inizio ottobre. Mentre aveva superato il 52% nel 2005, quando si votò in due giorni di giugno e risultò bocciata la riforma di Berlusconi e Bossi. In questo momento tutti i sondaggi danno il Sì e il No sostanzialmente appaiati, a fronte però di una grande massa di indecisi.
Il 4 dicembre si voterà anche in Austria, per il ballottaggio presidenziale più volte rimandato. A palazzo Chigi non deve essere dispiaciuta l’idea di far coincidere il referendum con quell’appuntamento già sotto i riflettori dell’Europa, perché tra i due candidati c’è un esponente dell’ultradestra nazionalista e antieuropeo. Da tempo infatti Renzi incoraggia l’impressione che la vittoria del No allontani il nostro paese dall’Europa. Dichiarazioni di sostegno al Sì da parte dei leader dei paesi alleati ne abbiamo già viste e altre ne vedremo.

Quanto al «merito» il presidente del Consiglio si ferma ancora e soltanto al titolo della sua riforma. Che sarà il testo stampato sulla scheda, in modo da risultare ingannevole per l’elettore. «Vogliamo superare il bicameralismo paritario sì o no?», chiede Renzi attraverso la sua enews diffusa un minuto dopo la conclusione del Consiglio dei ministri di ieri. E ancora: «Vogliamo ridurre il numero dei parlamentari si o no? Vogliamo contenere i costi delle istituzioni si o no? Vogliamo cancellare il Cnel si o no? Vogliamo cambiare i rapporti stato regioni che tanti conflitti di competenza hanno causato in questi 15 anni si o no?». La cancellazione del Cnel è inoppugnabile, quanto al resto la riduzione dei parlamentari è molto parziale, la riduzione dei costi solo immaginata, i rapporti stato regioni destinati a restare confusi. Malgrado una vigorosa sterzata centralista.