«La poesia è un fagiano che scompare nel sottobosco» – «Poetry is a pheasant disappearing in the brush». Questo adagio di Wallace Stevens, che ha la scattante energia di un suo verso (un frullar d’ali rapidissimo, l’epifania inattesa e ironica, nella mente, della natura imprendibile del reale, un’immagine in cerca di forma nella foresta di «cose» che è l’esistenza quotidiana), è fra le più intense e luminose definizioni della poesia che io conosca.

Di Stevens Massimo Bacigalupo ha appena tradotto Tutte le poesie in un bellissimo Meridiano (Mondadori, testo e traduzione a fronte, pp. 1325, euro  60,00), che per la prima volta offre in Italia l’intera opera in versi, permettendo di percorrere per intero l’ampio, variegato territorio della sua scrittura dal 1915 al 1955, l’anno della morte (era nato in Pennsylvania nel 1879).
Poeta fra i massimi del Novecento anglosassone insieme a Pound, Eliot, Williams, che gli fu amico, Stevens visse una vita senza colori, senza slanci, anche se quel fagiano-poesia non smise mai di guizzare nascosto fra le pieghe dell’esistenza grigia. Di formazione giuridica, specializzato in contratti di fideiussione, come un Kafka ad elevata potenza diresse da onesto funzionario importanti società di assicurazione statunitensi: ma insegnò a pensare in poesia agli Americani.

Archibald McLeish, ad esempio, declama qualcosa di vicino a Stevens, intorno alla poesia che libera e rende visibili «the things as they are», «le cose come sono»: «A poem should not mean / but be», «Una poesia non dovrebbe “significare”, / ma “essere”». Come Bacigalupo vede bene, la lingua di Stevens, «di totale nitidezza e perspicuità, poteva solo venire dal grande spazio americano, da uno abituato a scrivere documenti legali, dove tutto è perspicuo e astorico, dove nulla è emotivo. L’emozione c’è, ma detta con sovrano distacco, mostrata. (…) Stevens, che praticò sempre un distacco che poté parere altezzoso, è in realtà un poeta democratico, che passa tutte le suggestioni dei modernismi novecenteschi al setaccio di una mente non abituata a tollerare frivolezze o pretestuosi pseudoragionamenti. (…) E nonostante la sua facondia, lascia sempre l’impressione di un uomo di poche parole».

Nella cadenza dei giorni tutti uguali, delle parole asciutte ed esatte, scocca inatteso, istantaneo, il baleno dell’atto mentale che dà forma di parola alla dura realtà delle «cose», fugace come un animale raro e selvaggio, al modo di quell’altissima lingua poetica immaginata da Dante nella figura allegorica della pantera di cui sentiamo solo l’alito profumato che permane nei boschi, dove si è nascosta mentre la cerchiamo affannati.

«Cerchiamo / la poesia della realtà pura, vergine / di tropi e di deviazioni, diritta alla parola, / diritta all’oggetto che trafigge, l’oggetto / al punto esatto in cui è se stesso/ trafiggente in quanto è ciò che è, nient’altro»; «Basterebbe essere una volta, / una sola volta, al centro di Questo Nostro Meraviglioso Mondo / e non come ora, impotenti all’orlo» (da Aurore d’Autunno, a cura di Nadia Fusini, Adelphi 2014). E noi qui, nel sottobosco delle «cose», come Stevens tentiamo quello che Fusini definisce «il faccia a faccia con l’oggetto», contemplando «sommessamente (…) le forme aperte dell’esistenza», e «”impotenti all’orlo”, continuiamo a chiedere rivelazioni che non avvengono».
Stevens è un platonico che sogna una poesia della pura realtà del mondo, del «mondo come presenza» e «non forza», «non mente», secondo il proclama di San Giovanni nella surreale tenzone con il Mal di Schiena, sempre nelle mirabili Aurore d’Autunno, l’ultima collezione pubblicata, nel 1950. O forse questa è solo una delle maschere, delle «pose» di Stevens, poeta «sovranamente arduo» perché inafferrabile, metamorfico, sempre sé stesso e sempre già diverso, perché così è l’immaginazione.

Dovremmo leggerlo come un lucidissimo direttore d’orchestra che scandisce flemmatiche dichiarazioni di presenza delle cose nel mondo con ritmo perfetto, cadenzato dagli innumerevoli enjambements. Oppure come un poeta-pensatore medioevale o barocco nato nell’èra della fenomenologia husserliana, che, scrive ancora Nadia Fusini, «cerca una disciplina all’esuberanza dell’immaginazione» fino a cancellare la stessa «opposizione tra realtà e immaginazione» e a giungere «a una sorta di trans-discendenza, una forma di immanenza ritrovata in après-coup», ove riconquista il plain: il semplice, il banale, ossia un rapporto con la realtà in cui «vedere è più vicino al cercare che al pensare».

Il fagiano-poesia fugge nella boscaglia del pensiero («il cacciatore grida mentre il fagiano cade», Come decorazioni in un cimitero negro, 1935) e Stevens a poco a poco rinuncia al sublime delle prime poesie: «Come ci si mette / per contemplare il sublime / per affrontare gli schernitori? / (…) / Che vino si beve? / Che pane si mangia?» (Il sublime americano, 1935, in Idee dell’ordine). Da una raccolta all’altra, di stagione in stagione (proprio la stagione, il mutare del clima, il tempo che cambia la Stimmung del paesaggio, è uno dei temi forti di Stevens), la sua poesia avanza in un ininterrotto mormorio di fondo spesso imperscrutabile, dislocando immagini che ricompaiono, come temi musicali, in un fitto intreccio con i testi teorici in prosa, a partire dall’Angelo necessario (1942). Come suggerisce Massimo Bacigalupo, per Stevens «la mente pensa se stessa, e il mondo si pensa e pensa la mente, e i due conversano. La poesia, pittoricamente, non racconta storie, ma suggerisce».

È sottile questo avvertimento di Bacigalupo sul «carattere pittorico (e forse astratto)» della poesia di Stevens. I Tredici modi di guardare un merlo, del 1917, sono haiku giapponesi trapiantati nello spazio mentale americano, incisioni verbali simili agli uccelli, ai pesci, alle lepri, ai fagiani di Hokusai o al Carnet di schizzi di Hiroshige conservato a Washington, che Stevens potrebbe avere visto: «Fra venti monti nevosi / la sola cosa in movimento / era l’occhio del merlo»; «Ero di tre opinioni, / come un albero / in cui stanno tre merli». Anche le mele, le pere e le cipolle di Cézanne, realistiche e metafisiche, appaiono nella mente quando leggiamo lo Studio su due pere (1938) e, in Il comico come lettera c (ah, i titoli stravaganti di Stevens!), il discorso su un «realista» il quale ammette «che chi cerca un continente mattutino / può dopotutto fermarsi davanti a una prugna / con soddisfazione eppure essere realista. / Le parole delle cose irretiscono e confondono. / La prugna sopravvive alle sue poesie» (Una bella casa ombrosa, 1922).

Da sempre, però, le liriche di Stevens mi evocano soprattutto l’American landscape di Edward Hopper, per il quale la pittura era «l’espressione esteriore di una vita intima». La stessa silenziosa sospensione dello sguardo su «the quotidian» la stessa percezione del nostro esilio in una regione di dissomiglianza, fra le banali cose come sono delle Note per una finzione suprema: «Da questo nasce la poesia: che viviamo / in un luogo non nostro, e che non siamo noi, / ed è arduo, ad onta dei giorni di orifiamma. / Noi siamo i mimi».
Sarà un caso se l’ultima tela di Hopper, Two Comedians, del 1966, rappresenta il pittore e la sua compagna che salutano il pubblico dal palcoscenico?

Penso anche a una delle prime poesie di Stevens, che Bacigalupo definisce «poemetto neoromantico», Sunday Morning, Domenica mattina (del 1915), ripresa nella prima raccolta, Harmonium, che a Edmund Wilson parve «arida, priva di emozioni», uscita per sventura nel 1922, lo stesso anno della fortunatissima Waste Land di Eliot (però Stevens la liquidò come «una grande noia»). Riemerge nella memoria Mattino domenicale e altre poesie, la magnifica scelta, la prima al mondo con traduzione in una lingua straniera, curata per Einaudi da Renato Poggioli nel 1954, l’anno prima della morte del poeta, arricchita da un prezioso apparato di autocommento estratto dalle lettere che Stevens scrisse a Poggioli per rispondere ai suoi quesiti su versi difficili.

Poggioli vide mirabilmente, già allora, il senso della poesia di Stevens: «Se T. S. Eliot pone i frammenti recuperati della cultura dei secoli precedenti a puntellare le nostre rovine, Stevens invita ironicamente i posteri «to picnic in the ruins that we leave», (a fare un picnic tra le rovine che lasciamo). Impastata di quotidianità banale e di lucida astrazione filosofica, quella di Stevens è una poesia che nasce e vive nella rigorosa e appassionata contemplazione del paradosso della coesistenza fondante di mente e natura, di essere e nulla, di forma e caos, senza cedimenti né alla nostalgia del lutto, né alla negazione della fuga».In Stevens riconosco le solitudini in attesa di Hopper, intraviste dall’esterno di un bar o di un appartamento o colte in un interno spoglio, in cui le «cose» si riducono a luce immobile, a pura presenza: Early Sunday Morning (1930), l’inquietante House by the Railroad (1925) che ispirerà Psycho di Hitchcock, Night Windows (1928), i celebri Nighthawks (1942), le donne immobili di Automat (1927) o di Hotel Room (1931). Hopper raggiunge, ha scritto Luigi Sampietro, «un realismo – quasi una forma di surrealismo – frutto di una selezione e ricomposizione dei dati dell’esperienza». E proprio questa linea Stevens-Hopper mi sembra sostenuta anche dall’acuta lettura di Aurore autunnali dovuta a Nadia Fusini: un «procedimento “decreativo” che in lui si realizza come una decostruzione dell’immagine e della metafora»; così la Simone Weil di L’ombra e la grazia proponeva una décréation capace di abolire l’immaginazione che «lavora continuamente a chiudere tutte le fessure dove la grazia potrebbe passare».

Gli aforismi e le liriche di Stevens, scrive Massimo Bacigalupo, sono «constatazioni che non vogliono tanto far sognare, stuzzicare o divertire, quanto esporre una situazione, una posizione, con sciolta fermezza». Esse incastonano verità sempre uguali, ma sempre lievemente fatte slittare in avanti con ritmo musicale, in cerca di un’espressione più esatta del rapporto fra la mente o immaginazione, la realtà, l’espressione poetica: «La poesia accresce il senso della realtà»; «La poesia è una risposta alla necessità quotidiana di capire il mondo»; «La poesia è un mezzo di redenzione»; «La poesia è una cura della mente»; «Viviamo solo nella mente»; «La mente è la cosa più potente del mondo».

Il pensiero poetante di Stevens cresce intorno all’essenza della poesia, della vita, del reale, dell’immaginazione, e per forza sottrattiva scompone e ricompone le «cose» nell’esperienza che ne abbiamo, in quello che Paul Valéry definiva «il teatro della mente». Il poeta «deve riuscire ad astrarre sé stesso e anche ad astrarre la realtà, collocandola nella sua immaginazione» (L’angelo necessario). Questa «poesia piana eppure coinvolgente e risolutiva» Bacigalupo ci invita ad ascoltarla «con pazienza e senza eccessive pretese di rivelazioni, essendo molto evidente che il lavoro piacevole dell’immaginazione dobbiamo farlo noi».

Per Stevens la Poesia è la destinataria di tutta la poesia: «E per che cosa, se non per te, provo amore? (…) Nella luce incerta della verità singola, certa, / eguale nella vitale mutevolezza alla luce / in cui ti incontro, in cui sediamo quieti, / per un momento nel centro del nostro essere, / la trasparenza vivida che tu porti è pace» (Note per una finzione suprema, 1942). Con lui corriamo come cacciatori nel labirinto inseguendo il fagiano della poesia come senso del mondo, e lo vediamo mentre scompare, nell’attimo in cui si nega dopo essersi promesso: «Assenza, più acuta presenza», dice un verso di Attilio Bertolucci che Stevens avrebbe amato. La poesia e la meditazione sulla poesia, in questo poeta-filosofo dal plain stile americano, si rispecchiano ininterrottamente: «La grande sorgente della poesia non è altra poesia ma la prosa: la realtà. Tuttavia ci vuole un poeta per percepire la poesia nella realtà» (Materia poetica); «La poesia come manifestazione della relazione che l’uomo crea fra sé e la realtà»; «La realtà non è quel che è. Consiste delle molte realtà in cui può essere trasformata»; «Il mutare del tempo è un senso della natura. La poesia è un senso» (Adagia).

E allora, se «la realtà è il vero centro dello spirito», come proclama un altro Adagio, il «senso» della poesia-fagiano consiste per Stevens nell’abbandonare il volo estatico dell’«allodola della mente», quella «che si lascia cadere per la dolcezza che le va nel cuore» dei trovatori provenzali e dei Cantos di Ezra Pound, cogliendo invece «la grandezza delle cose come sono» (Grande uomo rosso che legge, 1950). Stevens non è solo un contemplatore, ma un poeta che ripensa il kantiano das Ding an sich, «la cosa in sé» (Il mondo senza immaginazione, che apre Il comico come lettera c, 1922).

E non vuole solo capire bene il mondo, ma afferrarlo, agguantarlo, renderlo umano attraverso la parola. È proprio lui, corpulento, roccioso come The Rock (1950), il Grande uomo rosso che legge le cose come creature, nel «centro di trasformaziomi che / trasformano per l’intima trasformazione» (Disposizione umana, 1946).

In questa chiave va accolto l’impensato paragone con la creaturalità francescana che Bacigalupo avanza, forse con la memoria a Mimesis, il grande studio di Auerbach sulla Rappresentazione della realtà: «La poesia di Stevens è assai diversa da quella di Whitman, che per quanto riguarda la corporeità dice la stessa cosa. Un amante quanto mai cerebrale del corpo, il nostro Wallace. Ma la sua continua celebrazione della gloria del mondo (…) a un lettore italiano ricorda un altro cantore dell’aria che ci brilla intorno in ogni dove: “Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dai sustentamento”».