Aspettando la Palma che la giuria con due presidenti, i fratelli Coen, annuncerà domenica sera, e mentre in strada appaiono le prime valigie del ritorno (il mercato ha chiuso ieri) per Cannes 68 comincia il momento dei bilanci. Il primo dato evidente sono i pasticci con la selezione francese, cinque film in gara, nessuno con la potenza visiva dei Trois souvenirs de ma jeunesse di Desplechin o di L’ombre des femmes di Garrel; due capolavori che (giustamente) il direttore della Quinzaine Edouard Waintrop non si è lasciato sfuggire. Così come ha ospitato quello che è diventato l’avvenimento del Festival, Le mille e una notte di Miguel Gomes, affresco politico e poetico del Portogallo ai tempi della crisi, e un’esperienza unica della visione. Questione di equilibri politici, produttivi, di sponsor, di star?

Inspiegabile anche perché in gara Frémeaux non ha voluto Cemetery of Splendour, il nuovo film della Palma d’oro Apichatpong «Jo» Weerasethakul, e forse tra i suoi più belli e forti nella ricerca di un’immagine capace di contenere la Storia e le storie come invenzioni visuali e di senso. C’è molto in comune tra Le mille e una notte di Gomes e il film di Weerasethakul, entrambi infatti guardano al contemporaneo, e allo stato del presente, nel caso della Thailandia la dittatura militare, lo intrecciano al passato prossimo e mitologico, mischiando gli elementi fantastici e soprannaturali, dee e fantasmi e spiriti delle lampade a una realtà ferocemente concreta.

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Apichatpong torna nella città in cui è nato, Khon Kaen, seguendo le tracce dei suoi ricordi di infanzia, i primi film americani come King Kong, e un racconto inquietante: in un ospedale ricavato da una scuola dei soldati soffrono di una strana malattia che li fa cadere nel sonno. Tra le volontarie dell’ospedale c’è Je – attrice straordinaria – una donna che ha sempre sposato militari, e che la guerra ha segnato nel corpo tagliandole via una gamba, e anche adesso sta insieme a un ex soldato americano che non vuole più vivere in America. Je si lega a uno dei soldati addormentati, un ragazzo senza familiari che vengano a trovarlo, Itt, ma anche a Keng, una medium che aiuta i parenti a leggere i sogni dei dormienti. I tre costruiscono insieme una zona intermediaria tra i vivi e i morti, tra il sonno e la veglia. Je riceve la visita delle divinità del Laos, a cui ha lasciato i giusti pupazzetti votivi chiedendo tra le varie grazie anche quella di non avere troppe rughe. E le due dee con aspetto di ragazze bellissime le raccontano che dove c’è ora la scuola prima c’era il palazzo reale, e il tempio, e i soldati dell’sovrano continuano a combattere succhiando le energie ai vivi, che per questo dormono.

La loro narcolessia è un scambio di fluidi tra la vita e l’aldilà, tra il presente e la Storia, un flusso di corpi e di anime che hanno per questo bisogno di cure delicate e amorevoli. E il corpo, che Apichatpong guarda con tenerezza e la sua cura sono l’oggetto del film, un corpo amato, desiderato, riconciliato con la sua natura e la sua luce. Le infermiere ridono dell’erezione del soldato prima nel sonno, e a un certo punto Je e Itt fanno l’amore attraverso la medium (lui è entrato nel suo corpo) che inizia a leccare i fluidi della gamba distrutta di Je, in una scena di incredibile erotismo e sensualità.

Forse per questo Cemetery of Splendour è un film di segno femminile, le protagoniste sono le donne. E nella messa in scena che accarezza e massaggia il pubblico come fanno le infermiere con i soldati addormentati, le stesse immagini diventano una cura, arte taumaturgica del cinema contro la guerra, l’oblio, e la violenza che attraversa il Paese del regista. «Girare con una dittatura non è facile» ha detto Apichatpong presentando il film alla proiezione ufficiale. Parlare della guerre civile, della guerra contro il Laos, dei conflitti attuali significa toccare argomenti tabù cosi come nel precedente Zio Bonmee dire dello sterminio dei comunisti messo in atto da governo thailandese lungo i confini con la Cambogia.

Anche stavolta «Jo» non affronta il soggetto in modo esplicito, ma certo non per paura: la sua «mediazione» è il cinema, l’invenzione di un universo più grande nel quale la realtà assume una forza insolita, e va oltre l’esperienza quotidiana. Ma non è questa la sfida dell’immaginario? Fare un film contro la guerra, o sulla dittatura ( o come Gomes sulla Troika e i suoi ricatti e complicità) è molto più semplice che costruire lo spazio del pensiero portando lo spettatore in un’esperienza dei sensi e della mente aperta, che non offre risposte nette e tranquillizzanti.

Il cinema, in cui nel silenzio si sente l’inno nazionale, altro riferimento proibito in Thailandia, e il pubblico si alza in piedi (ma sono i titoli di coda di un film di serie Z) fuori dai bordi del suo schermo bianco capovolge la percezione comune della realtà. I suoi segni si ricercano altrove, nella capacità rivoluzionaria di questa cura dalle ferite della guerra.

C’è sempre un malinteso sull’idea di cinema politico, come mostrano molti film visti in gara questi giorni al Festival, che è l’idea di mostrare l’esistente – forse per questo nonostante i loro intenti finiscono per difendere lo stato delle cose e a celebrarne la potenza regalando allo spettatore ciò che vuole. Non è una cura, piuttosto uno stordimento. Politico è invece per Apichatpong un concetto plastico e visuale in cui si mescolano colori e suoni, natura e buddismo: il mondo nella sua essenza e nei suoi legami complessi che mettono in discussione le cose come sono, il nostro punto di vista e il nostro sguardo in un semplicità illuminante.