Come sovente accade con registi che oggi sono considerati maestri con un automatismo che annulla differenze di grado e discorso critico, anche Wes Craven (come Romero e Cronenberg) ha subito le stroncature più violente. Quasi mai i critici dell’epoca hanno mostrato la medesima apertura mentale di Fruttero&Lucentini che occupandosi di La casa di Sam Raimi sulle pagine di Epoca non solo ne lodavano l’inventiva e la generosità ma, polemicamente, lo opponevano a Si salvi chi può la vita di Godard che invece non avevano amato per nulla.
Le colline hanno gli occhi, per esempio, fu liquidato frettolosamente e ferocemente sulle pagine dell’ottimo settimanale di fumetti Lanciostory. L’autore lamentava la violenza brutale del film bocciandolo senz’appello. D’altronde è proprio la violenza che ha permesso al film una lunga tenitura nella provincia delle seconde e terze visioni dove i film sovente cambiavano titolo per permettere uno sfruttamento intensivo di pellicole spesso distribuite da arrembanti indipendenti senza troppi scrupoli.
Così, superando le barriere dei divieti, più flessibili in provincia, si riusciva persino a imbucarsi per vedere L’ultima casa a sinistra, riproposto con una certa frequenza. Si deve attendere il 1986, anno della rassegna torinese «Midsummer Night Scream – Il cinema americano dell’orrore dal 1968 al 1986», per vedere riscattati autori e film amati con trasporto ma troppo spesso consumati da alcuni con il medesimo imbarazzo clandestino di chi nascondesse una copia di Supersex in un disco degli Inti Illimani.

 

 

L’attenzione di Danilo Arona per Craven ha fatto poi da detonatore di altre letture e riletture. Curiosamente, già al momento della distribuzione di Nightmare qualcosa sembrava muoversi, ma la situazione delle riviste non era delle migliori. Se Segnocinema non faticava a dialogare con il cinema di Craven, sulle pagine di Cineforum spettava ai sentieroselvaggisti portare avanti la sua causa. Fulminanti, in questo senso, gli interventi craveniani di Federico Chiacchiari e Demetrio Salvi. A guardare retrospettivamente, ci si rende conto che Wes Craven è un nostro contemporaneo. Un autore il cui lavoro abbiamo visto e scoperto in «diretta» (proprio come quello di Carpenter, David Cronenberg, Tobe Hooper) e con il quale abbiamo dialogato, tentando di costruire un discorso critico sul suo lavoro.

 

 

 

 

Nonostante tutto, appurata l’importanza di una serie di film chiave, e senza mai negare alcuni esiti disastrosi del nostro, la critica ha sempre faticato a riconoscere il suo lavoro quando questo s’inoltrava in territori inconsueti. Ed è proprio questo il crinale problematico della discussione: tentare di analizzare il lavoro di un cineasta essendo equidistanti sia dagli eccessi di entusiasmo dei fan che dalle banalizzazioni di chi anche oggi fatica ad ammettere che è stato un regista cruciale sia per lo sviluppo del genere che per la gestione del suo passaggio dagli anni Settanta al decennio successivo, quello della restaurazione reaganiana.
A rileggere i suoi film ci si rende conto che quanto si scriveva ieri, era vero. Le trasformazioni del cinema e dell’industria, della società e della politica americana sono presenti come sotto testo e non solo nei film più importanti di Craven. Vero cinema di estrema sinistra. Qualcuno all’epoca se n’era accorto e lo ha scritto e qualcun altro non ha capito. La critica, in genere, si manifesta proprio quando si scrive di registi come Wes Craven.