«Io sono solo grato di aver avuto l’opportunità di fare film  l’opportunità di fare film per quasi quarant’anni. Non mi lascio sfuggire nemmeno una chance di scappare. Ma, se devo proprio essere un uccello in gabbia, stai sicuro che canterò la canzone più bella che posso». Così, in un’intervista dell’ottobre scorso, Wes Craven rispondeva al regista Mick Garris che gli chiedeva se si sentisse intrappolato dal genere horror.
Dalla gabbia insanguinata dell’horror Craven (che amava molto l’ornitologia e scriveva una rubrica mensile dal titolo hitchcockiano Uccelli, di Wes Craven per il Martha’s Vineyard Magazine) non ha cantato solo la canzone più bella che poteva: ne ha cantate tante, una più bella e diversa dell’altra, nell’arco di una carriera che, con grazia e tempismo sublimi, l’ha visto sempre all’avanguardia delle mutazioni del genere. Il che rende ancora più uno shock svegliarsi e leggere che il regista di Cleveland è mancato domenica, ucciso da un cancro al cervello all’età di settantasei anni.

 
Creatore di due delle franchise orrorifiche più leggendarie e lucrative della storia – i Nightmare e gli Scream– Craven è passato da una laurea in psicologia a un master in filosofia a fare il produttore associato per Sean Cunningham in un porno soft con Marylin Chambers, Together (1972). Sempre per la factory di Cunningham, Craven collaborò (come montatore e regista delle seconde unità) l’anno seguente all’hardcore It Happened in Hollywood. Ed è la crudezza «realistica» del porno di quegli anni che portò al primo film firmato in qualità di regista, L’ultima casa a sinistra (’72), un’ iperbrutale storia di stupro e tortura che sembrava strappata alle cronache degli omicidi Manson ma che lui aveva concepito come un remake di La fontana della vergine di Ingmar Bergman. 

wes craven

 

 

Tuttora giudicato uno dei film più indigeribili della grande new-wave horror iniziata, insieme a Craven, da George Romero, Tobe Hooper e John Carpenter (con Cronenberg in Canada), L’ultima casa a sinistra è in realtà un film emblematico della dualità high/low che caratterizza l’intera opera di Craven – la vena crudele, quasi sadica, che predilige nella sua esplorazione del genere, e l’interesse colto per una riflessione sulla natura più profonda del cinema, che svilupperà, in chiave sempre più «meta» con i Nightmare (8, di cui 2 diretti da lui. Precursori di un intero filone anni ottanta in cui la barriera tra realtà e sogno non esiste più) e con la vertigine autoreferenzial-cinefila degli Scream, (4, tutti diretti da lui) altrettanto emblematici delle decade successiva.
Meccanismi oliati alla perfezione (anche quando l’immagine sembra sporca, sgranata, come Il serpente e l’arcobaleno, o Shocker, parabola geniale sulle «conseguenze» della pena di morte), non importa quanto elaborati nella loro architettura (alcuni dei suoi dialoghi ricordano i barocchismi di Tarantino), i film di Craven colpiscono in modo viscerale, primario. Sono, al di sopra di ogni altra cosa terrorizzanti. Il che ne fa uno dei registi contemporanei che hanno distillato in modo più puro gli effetti della violenza (fisica o psicologica) e il funzionamento della paura.
In comune con la new wave anni settanta dei Romero e Carpenter è l’impegno politico che sottende quasi tutti i suoi lavori, ed emerge con grandissima forza in alcuni capolavori meno riconosciuti, come il cannibalesco ruggito antirazzista La casa nera (che il regista stava trasformando in una serie tv per il canale SyFy).

 

Ingiustamente sottovalutati sono anche alcuni dei suoi film più recenti, come Cursed-Il maleficio, My Soul To Take e uno dei suoi titoli forse più belli, il thriller aereo Red Eye, un tour de force quasi interamente concentrato nello spazio di due sedili d’aeroplano.
«Fuori» dalla gabbia dell’horror, Craven riuscì a fare un unico lungometraggio, La musica del cuore con Meryl Streep maestra di violino per i ragazzini di Harlem. Era il contentino strappato a Harvey Weinstein per aver accettato di dirigere un sequel di Scream . Si tratta di un film quasi sentimentale, tratto da una storia realmente accaduta. Ricordo che ne parlava con grandissima eccitazione, ma senza molto illudersi che gliene avrebbero lasciati fare altri. É l’unico film di Wes Craven ad aver sfiorato la notte degli Oscar (nomination a Streep e per la miglior canzone a Diane Warren).