Fare un western è il sogno di quasi tutti i registi americani. Ogni scusa è buona per provarci. A quella per la Grande Frontiera, J.J. Abrams ha aggiunto la sua passione per un film «di culto», scritto e diretto nel 1973 da Michael Crichton (è la sua unica regia), Westworld, che ha lasciato indelebile nella mente di milioni di cinefili, l’immagine di un Yul Brynner pistolero, vestito di nero, gli occhi argentati, fissi fissi, e il volto semidecomposto dall’acido. Da quell’ibrido di western e sci-fi, è nata l’ultima serie HBO, Westworld appunto, che Abrams (produttore) ha messo nelle mani di Jonathan Nolan (fratello e abituale sceneggiatore di Christopher) e di sua moglie Lisa Joy. Un futuro in cui ricchi turisti pagano migliaia di dollari per trasformarsi in banditi, sceriffi, cortigiane, tribuni o matrone rivivendo il West, il Medio Evo e la Roma antica, in un parco a tema popolato di robot dalle sembianze umane che «interpretano» il life-style dell’epoca, era la premessa del film di Crichton, una satira sul consumismo di un’America ricca e annoiata e un cautionary tale sull’abuso della tecnologia.

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Secondo un espediente narrativo che lo scrittore avrebbe poi ampliato in Jurassic Park, infatti, a un certo punto i robot cominciano a ribellarsi ai comandi e ad agire di «testa» propria. La serie HBO sceglie un parco solo, quello della Frontiera, e apre mentre un treno ottocentesco fa il suo ingresso a Sweetwater (nelle realtà un luogo dove sono stai girati moltissimi western, il Gene Autry Ranch a Santa Clarita, in California). A bordo è Teddy (James Mardsen), un habitué del parco, non tanto perché gli piace giocare al cow boy ma perché è innamorato di uno dei robot/ospiti, Dolores (Evan Rachel Wood), figlia di ranchero locale. «Sei tornato» gli dice lei sorridendo. «Te lo avevo promesso», risponde lui, in una scena che vedremo ripetersi più volte, da differenti punti di vista e con esiti diversi, a seconda dell’input narrativo che i burattinai del parco imprimono al tutto. Tra quei burattinai, all’opera in laboratori dai muri e corridoi di vetro, il più potente e misterioso è Ford (Anthony Hopkins), un dottore alla Frankenstein, probabilmente al corrente de fatto che alcuni robot non stanno funzionando come dovrebbero, cosa che comincia ad intuire anche Bernard Lowe (Jeffrey Wright), il suo braccio destro, forse anche lui innamorato di Dolores.

E, fin dal primo episodio, è chiaro che Nolan e Joy non sono tanto interessati a mettere in scena una semplice rivolta dei robot quanto a esplorare interrogativi esistenziali più ambiziosi, come la coscienza e il libero arbitrio delle macchine, più vicini alla sci-fi di Blade Runner e A.I., e articolati in una rete di narrative multiple che si sovrappongono, uniscono e separano come quelle di un videogame. L’ancora di questa dimensione amletica, sofferente, oscilla tra il personaggio di Evan Rachel Wood, che ha il volto perfetto ed enigmatico di una bambola, e quello di una prostituta, interpretata da Thandie Newton. Mentre, in questo caso, il pistolero nero e sadico (Ed Harris), non è un robot bensì un turista, anche lui ospite ricorrente di Westworld, al cui «gioco» ha giocato più volte, e che, tra i rossi e i bruni del deserto, seminando cadaveri, ha in mente un obbiettivo ancora non chiarissimo.

Seguendo il modello di Game of Thrones, e quello di molti videogames, già nei primi episodi (ne abbiamo visti quattro) Westworld non lesina sulla violenza, il sesso e il gore, che si contrappone a sontuose panoramiche del paesaggio, virato in colori ipersaturi e abbracciato dal grand’angolo, con un effetto di iperealtà che accentua, sia la dimensione dell’artificio (il luna- park) che quella del mito (il West). Il che differenzia la texture di questa serie dal realismo dalla migliore ricostruzione televisiva del West degli ultimi anni: Deadwood, di cui però Westworld, nonostante la sua aspirazione filosofica, non ha la profondità e il ricchissimo, intricato rapporto tra genere e storia.