Inquieto, provocatorio, apparentemente disilluso, Yabar è una diciottenne romano di origine somala. Dopo che un litigio con la sua più cara amica l’ha costretto in ospedale – lei gli ha spruzzato della vernice in faccia -, ripercorrerà la sua vita portandoci con sé in un viaggio che dalle sponde del Tevere conduce fino alla Somalia, passando per le comunità della diaspora di Londra, dove era stato mandato dopo essere stato bocciato a scuola, e, soprattutto, alla scoperta del coinvolgimento del padre, scomparso da tempo dalla sua esistenza, nelle sanguinosa guerra civile del paese africano.

Yabar è il protagonista de Il comandante del fiume (66thand2nd, pp. 208, euro 16), seconda prova narrativa di Ubah Cristina Ali Farah dopo Madre piccola, uscito nel 2007 per Frassinelli, la sua partecipazione a diverse antologie di racconti e l’attività poetica premiata con numerosi riconoscimenti. Con questo romanzo, Ubah Cristina Ali Farah, scrittrice nata a Verona nel 1973 da padre somalo e madre italiana, dà voce alla nuova Roma plasmata negli ultimi decenni dalla presenza di tanti volti e storie provenienti da ogni angolo del mondo. Ma soprattutto descrive, con questo romanzo di formazione che sorprende ed emoziona, e che non teme di misurarsi con la guerra, il terrorismo e il rifiuto dell’altro, l’irresistibile normalità di questa trasformazione attraverso la vita di un ragazzo che sembra scoprire nel Tevere i coccodrilli delle favole africane con cui è cresciuto. L’autrice ha presentato il suo libro a Roma, presso la Biblioteca Guglielmo Marconi nell’ambito del progetto Intercultura ed è stata fra gli ospiti del festival milanese Bookcity.

Un romanzo che si snoda tra Roma e l’Africa, che descrive la crescita di un giovane di origine somala in una città che fatica a scoprire la sua identità plurale. È una sorta di disegno autobiografico?

Il progetto del libro è nato molti anni fa, quando, insieme ad altri autori che come me non erano nati a Roma, mi era stato chiesto di scrivere un racconto che avesse a che fare con la capitale. Vivevo in questa città da molto tempo, ma mi ci sentivo, diciamo così, sempre un po’ di passaggio.

Non sapevo bene cosa scrivere, ma poi grazie ad un amico, cresciuto a Roma ma di famiglia etiope, con cui lavoravo come mediatrice culturale, sono entrata in contatto con i giovani, soprattutto somali, eritrei, etiopi, vale a dire delle ex colonie italiane in Africa, e capoverdiani che si incontravano a piazzale Flaminio e ho visto il modo con cui si misuravano con la metropoli. Mio figlio, inoltre, è cresciuto a Roma e così è anche alla sua esperienza che ho attinto per il linguaggio e il legame con la città, due elementi che sono alla base de Il comandante del fiume.

Il giovane protagonista, Yabar, ci guida attraverso le tappe di quella che appare come la conquista della consapevolezza di sé. La sua «formazione» è il filo lungo cui seguire l’intreccio della storia?

La struttura del romanzo si muove su tre piani temporali. C’è il presente di Yabar, ricoverato in ospedale, la cronaca delle vicende che lo hanno condotto fin lì, scandita lungo la sua infanzia ed adolescenza, e poi il passato più lontano che lui cerca di ricostruire, riappropriandosi contemporaneamente della sua storia.

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In questo percorso, ho voluto che ciò che conduce il ragazzo a interrogarsi sulle sue radici e sulla storia della sua famiglia non sia un avvenimento che abbia a che fare con le sue origini «altre», ma un fatto, come una bocciatura a scuola, che può appartenere all’esperienza di uno qualsiasi dei suoi coetanei. La crisi di Yabar, che lo condurrà a misurarsi con la parte più dolorosa delle vicende della sua famiglia e con la tragedia della guerra civile somala, inizia per qualcosa che potrebbe riguardare chiunque.

L’essere stato bocciato e l’assenza del padre, metteranno così in moto una ricerca che sembra rispondere anche a quesiti più generali che sente pesare su di sé. Questo perché lui è convinto che la realtà di una persona non possa essere compresa guardando al colore della sua pelle o al modo in cui parla, un atteggiamento che gli capita, invece, di subire spesso.
Misurarsi con il ruolo avuto dal padre nella guerra civile somala, sembra servire a Yabar per ribadire la sua identità di giovane ragazzo romano. Fa chiarezza sulle sue origini per capire chi è davvero?

Il ragazzo accusa le due donne che l’hanno cresciuto, la madre e «zia» Rosa di essere reticenti rispetto a quel passato. In realtà, lui sa come sono andate le cose, ma si deve misurare con l’atteggiamento quotidiano di chi gli chiede in continuazione: «ma tu da dove vieni?». Come se dovesse spiegare e ribadire in ogni momento la sua appartenenza, quasi giustificare la sua presenza in un luogo che lui sente suo, vale a dire questo paese.
Perciò, la storia di suo padre e della guerra in Somalia, lui la conosce già, fa parte del suo immaginario, forse teme soltanto di non conoscerla. Il punto è che sente però il bisogno di ribadire che appartiene allo spazio in cui vive, che ha il diritto di esserci: lo fa proprio compiendo un viaggio attraverso il passato della sua famiglia. Rispondere a domande su «chi sei» e «da dove vieni» è una cosa molto complessa, che necessita di risposte articolate e non certo superficiali. Alla fine del romanzo Yabar risponderà che la sua famiglia sono le persone con cui è cresciuto, poco importa la loro origine, e la sua casa è Roma.

In un fitto gioco di rimandi, proprio la città e il Tevere, lungo le cui sponde i ragazzi corrono e si incontrano, sembrano evocare nella storia la favola di un fiume africano popolato di animali feroci, metafora della condizione umana. Quale Roma ha descritto?

Nella prospettiva di un romanzo di crescita o di formazione quale è per certi versi Il comandante del fiume, volevo che si percepisse l’idea di una descrizione favolistica della città, che ne rendesse la dimensione ludica e di scoperta che è propria dei ragazzi. Allo stesso modo, anche la favola africana che parla della scoperta del male, prima di tutto dentro se stessi, mi sembrava un simbolo molto forte di crescita. L’immaginario di Yabar, al pari di quello di tanti giovani di origine straniera, si è costruito mettendo insieme questi elementi: ci sono tracce della cultura e della letteratura italiana, ma anche della cultura orale somala, il tutto mescolato nell’esperienza di vita in una grande città.

Nell’elaborazione del romanzo è stata molto importante anche una cosa che mi ha detto una volta la mia amica scrittrice Carola Susani: il pericolo che nella narrativa delle migrazioni i riferimenti alla cultura che gli autori hanno alle spalle sia prevalente rispetto a quella italiana. Così, prima di iniziare a scrivere mi sono immersa nella letteratura italiana del dopoguerra, quando si sentiva un gran bisogno di raccontare delle storie, e mi sono sentita rinfrancata, accolta da questi romanzi perché vi ho trovato lo stesso bisogno di narrare una molteplicità di vicende, quasi impossibili da comprimere in un solo romanzo.

Si parla abitualmente di «seconde generazioni» anche a proposito della letteratura: è una definizione che le va stretta?

Questo tipo di etichette servono per indicare fenomeni e percorsi che sono naturalmente più complessi e articolati di quanto non dica la semplice definizione. La scrittura è un lavoro individuale, ma ciò di cui vuoi scrivere, le cose di cui ti capita di parlare nascono sempre in un contesto. Perciò è vero che ricorrere a delle categorie generali può risultare limitante ma, allo stesso tempo, indica in modo chiaro cosa sta accadendo nella società, il modo in cui la società stessa ha percezione dei cambiamenti che l’attraversano. Perciò in questo caso mettere l’accento sulle specificità di alcuni autori, specificità data dal loro vissuto, dal loro rapporto con la lingua o con la storia, significa anche rendere esplicito il modo in cui partecipano della cultura italiana di oggi.

In Italia siamo all’inizio, sia per chi scrive, sia per l’accoglienza e l’attenzione rivolta a questi romanzi. Perciò sento che chi come me scrive delle proprie diverse origini ha una grande responsabilità, ma sento anche di condividerla con chi invece non le ha e credo oggi debba cercare di capire e di appropriarsi di tutto ciò. Questo paese sta cambiando moltissimo e cambierà ancor di più in futuro: l’importante è che tutti facciano la loro parte.