«All’Occidente non chiediamo bombe o armi, chiediamo che smettano di inviarle ai jihadisti radicali». Così dice al manifesto Yilmaz Orkan, membro del Congresso nazionale del Kurdistan (Knk). Lo abbiamo incontrato ieri a Roma, al Campidoglio, ospite di un convegno organizzato dal Gruppo Sel assemblea capitolina, da Progetto diritti e dall’Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia. A tema, “La questione curda. Resistenza all’integralismo, progetti di federazione e nuovi equilibri geopolitici”. Presenti, rappresentanti della politica capitolina (Gianluca Peciola, capogruppo di Sel), parlamentari regionali (Massimiliano Smeriglio, vicepresidente della Regione Lazio), deputati (Khalid Chaouki, commissione Esteri della Camera del Pd e il suo omologo Arturo Scotto, di Sel).

Un’occasione per evidenziare «i paradossi» della questione curda nell’attuale contesto mediorientale, come ha rilevato il responsabile politica Estera del Pd a Roma, Andrea Sgulletti: i curdi sono al contempo argine contro gli attacchi del Califfato e però sempre sulla lista nera, come «terrorista» degli Stati uniti e dell’Europa. Tanto che, ci ha spiegato l’avvocato Mario Angeletti, i militanti vengono perseguiti anche in Italia, e tre processi sono ancora pendenti a Venezia e a Milano. Eppure, il fondatore del Pkk, Abdullah Ocalan, sempre prigioniero sull’isola d’Imrali, sta rappresentando il suo popolo nelle trattative con lo stato turco, che durano dall’anno scorso.

Eppure, dalla proposta federalista e democratica, applicata nella regione autonoma di Rojava (nel Kurdistan siriano) arriva un «messaggio di convivenza e di civiltà». Della lunga detenzione di Ocalan, iniziata il 15 febbraio del 1999 – quando è stato rapito in Kenya a seguito di un’operazione d’intelligence clandestina e consegnato al governo turco – ha parlato l’avvocato, Arturo Salerni, che fa parte del collegio difensivo, e che ha una lunga esperienza nella difesa dei migranti e dei profughi senza diritti, come gli stessi curdi.

E sul milione di profughi dall’Iraq e sugli sfollati dalla Siria (6,5 milioni), ha messo l’accento anche la giornalista Federica Ramacci (Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo). Un rischio anche per la stabilità di tutti – ha detto – perché si tratta di masse di persone disperate, potenzialmente alla mercé delle profferte dell’Isis, che paga profumatamente i suoi soldati. Tutti hanno comunque convenuto che la questione curda vada affrontata fuori dalla logica dello «scontro di civiltà», come invece intende indicare «chi vorrebbe intestare una via della capitale a Oriana Fallaci».

Yilmaz Orkan, qual è la vostra analisi di quanto sta accadendo in Medioriente?

So che molti compagni pensano che abbiamo negoziato con gli Stati uniti, che perseguiamo gli stessi obbiettivi. Non è così. Basta guardare l’attitudine degli Usa e dell’Europa: il Pkk continua a essere nella lista delle organizzazioni terroriste, l’autonomia regionale del Rojava non viene riconosciuta. Nessuno ci ha inviato aiuti umanitari per evitare che questo sembrasse un riconoscimento. Con la loro resistenza, oggi però i curdi sono un attore organizzato, da rispettare. Siamo uno dei 5 popoli fondamentali in Medioriente, anche se non abbiamo uno stato, né la garanzia di poter esprimere e condividere la nostra identità politica e culturale. Il nostro non è un progetto destabilizzante, al contrario. La nostra è una questione irrisolta che viene da lontano, ma oggi non è più tempo di nazionalismi. Noi non vogliamo distruggere gli stati nazionali, ma avere un’autonomia regionale. Come ha detto il presidente Ocalan, noi vogliamo costruire una vita libera e democratica e per questo mettiamo in comune la nostra terra, acqua, energia in cui tutti possano abitare in pace, senza discriminazioni politiche o religiose. Noi abbiamo sempre detto, sia agli Stati uniti che a certi paesi arabi come il Qatar o l’Arabia saudita: non vi chiediamo armi, vi chiediamo di non mandarne più alle forze che ci attaccano, vi chiediamo di interrompere i finanziamenti. Siamo una forza laica, democratica e femminista, difendiamo l’autonomia regionale e la convivenza tra i popoli. Nient’altro. Le forze che oggi vogliono combattere l’Isis non lo fanno per favorire i curdi ma perché si rendono conto che hanno creato un mostro incontrollabile, che si rivolta contro di loro, come altre volte.

Sia il Pkk che l’Ypg, la guerriglia curda siriana, hanno oltrepassato le loro zone d’influenza in seguito agli attacchi dell’Isis. Cosa cambia per le trattative di pace iniziate a marzo del 2013 tra Ocalan e il governo turco?

Siamo entrati in campo per proteggere la popolazione civile, anche di altre religioni. Il Pkk è intervenuto quando anche le Nazioni unite sono scappate. In Iraq, il governo centrale non ha difeso i cittadini curdi che vivono fuori dalla zona di autonomia, né gli altri. E l’Isis, a Mosul, si è impadronito del secondo deposito di armi: tutte armi occidentali. Sull’isola d’Imrali, le trattative stanno andando avanti. A settembre, il governo turco dovrebbe presentare la propria road map. Il problema è che il governo turco aiuta l’Isis. Nessuno tratta con noi in modo sincero. Invece, accettare un progetto di autonomia federale come quello che c’è a Rojava servirebbe da modello anche per altre situazioni di conflitto.