Che in età moderna poesia e critica vadano inevitabilmente insieme, che queste due sorelle percorrano – pur diversamente – lo stesso cammino, lo ha fissato una volta per sempre Charles Baudelaire, ricordandoci che ogni vero poeta contiene in sé anche un critico di prima grandezza. Ma lo stesso binomio, la stessa inevitabilità di questo rapporto, è stata più volte incarnata anche da alcuni sodalizi d’eccezione: basti pensare, per tenerci al solo Novecento italiano, alla «lunga fedeltà» che ha legato Gianfranco Contini, lungo l’intero arco della sua attività, alla scrittura di Eugenio Montale. E proprio al tandem Contini-Montale – esplicitamente citato nel risvolto di copertina – e a quella memorabile formula-sigillo fa immediatamente pensare un titolo come Una lunga complicità Scritti su Andrea Zanzotto (il Saggiatore, pp. 189, euro 24,00), volume in cui Stefano Agosti raccoglie ora gli studi consacrati al poeta di Pieve di Soligo in quasi mezzo secolo, se il primo saggio da lui dedicato a Zanzotto è del 1969, a ridosso dell’uscita – l’anno precedente – della Beltà. Un’attenzione che si sostanzia di un’intesa verrebbe da dire naturale fra il poeta e il suo lettore d’elezione: perché analogamente profonda e nutritiva è, per esempio, la funzione che Jacques Lacan ha giocato nel percorso di entrambi; o si pensi a come Agosti – sfruttando lo stesso Lacan del Seminario IV, incentrato sulla relation d’objet – abbia riletto in chiave psicoanalitica il Canzoniere di Petrarca (nel suo Gli occhi e le chiome, 1993), quel Petrarca su cui Zanzotto ha puntato a sua volta in sede critica (in un bellissimo saggio che ritraeva il poeta dei Fragmenta fra il palazzo e la cameretta) e insieme in poesia, al chiudersi della sua Beltà, in una lirica decisiva come E la madre-norma. O ancora, si potrebbe annotare il fatto che tutti e due – Agosti e Zanzotto – guardino assiduamente a Pasolini, o a certe intersezioni fra letteratura e figuratività, ecc. (e se ben simili sono i nutrimenti, la complicità del titolo potrà allora trascolorare addirittura in una vera e propria consanguineità).
Questo è un libro che racconta dunque di una costanza, e trova probabilmente nella già citata Beltà il suo più importante testimone. Perché è proprio uno studio sul quel libro ad aprire il volume, dopo una breve introduzione – suggestivamente intitolata «Dalla specola di Pieve» – nella quale il movimento innescato appunto dalla Beltà è descritto qui come un’«esplosione», che depositerà i suoi risultati anche altrove. Agosti, certo, è un critico da «campo lungo», intenzionato cioè a osservare un dato fenomeno o un dato luogo registrandone la traiettoria – ovvero le premesse e gli esiti – e non solo il loro nudo apparire. Ma non si risparmia poi certe uscite nette, certi graffi istantanei che inchiodano l’oggetto e insieme chi legge, aumentando la carica seduttiva del discorso critico. Basti qualche scheggia a comprovarlo: vedi un asserto quale «il banale è l’autentico», riferito ancora alla stessa raccolta; o l’etichetta di «bolla patologica» per quanto, nei testi zanzottiani, scavalca icasticamente la normale mise en page tipografica; o ancora, la definizione dello «spazio del Significante» – scavando ben oltre il profilo solo linguistico del tema – come luogo in cui «la Storia è detrito e ove l’insignificanza ha un senso». Se esistono, insomma, le zanzottiane poetiche-lampo, esistono anche certe designazioni-lampo del critico, che funzionano anzitutto da segnale di – sempre vigile – «interpretazione in corso».
E non ci si inganni: questo libro-summa è fatto di costanti, ma è contemporaneamente un libro impegnato nella fatica di distinguere. Il che è un necessario corollario e insieme correttivo della stessa, lunga complicità. Ecco dunque Agosti non esimersi dall’affrontare anche le prove più impervie dello Zanzotto ultimo, da Sovrimpressioni – riconosciuto come il centro della «cancellazione della struttura discorsiva ordinaria» messa in atto in questa fase – fino a Conglomerati, di cui si appronta una sorta di breve e inedita guida di lettura (ma sempre puntando dritto alla testualità, vera radice e obiettivo di tutta l’opera di Agosti, anche al di là di Zanzotto). Notevole, poi, che il capitolo di chiusa, quasi en abyme, sia occupato proprio dall’attività critica zanzottiana: un’attività lontana dalle «categorie consuete, siano quelle della critica storicistica o quelle della critica formale», definita piuttosto da Agosti una «critica antropologica della letteratura» (entro cui un ruolo-chiave giocano due phares quali Mallarmé e Artaud). Passa anche da qui – da un modo della lettura attento anzitutto alla corporalità in quanto «intreccio di soma e psiche» – la Differenza, o diremo senz’altro l’unicità, di Zanzotto.