Compositore, cantante, cronista, Zeca Baleiro è una delle voci più originali del ricchissimo arcipelago delle musiche brasiliane degli ultimi anni. Attivo in maniera professionale ormai dal 1997, fa parte di quella generazione di passaggio fra l’epoca dei grandi interpreti ben proiettati sulle scene internazionali degli anni 60 e 70, e i giovani che viaggiano velocissimi nella rete.

Dal profondo Nordeste alla futuribile São Paulo, ci ha raccontato un po’ della sua traiettoria, dalla passione per le musiche dei ciechi, all’impegno con la sua etichetta discografica, alla valorizzazione e alla scoperta di quanto anticonvenzionalmente batte forte nella canzone brasiliana. Lo scorso mese è stato pubblicato un disco dal vivo, Ao vivo – Calma aì, coraçao, mentre in questi giorni vede la luce in Brasile un libro A Rede idiota, che raccoglie una serie di articoli su argomenti vari da lui pubblicati su quotidiani e riviste.

La conversazione si apre in maniera curiosa, parlando di musica italiana e di come viene percepita in Brasile.« La visione che si ha in Brasile della musica italiana è molto distorta, c’è molto mainstream: Zucchero, Ramazzotti, la Pausini. Nel mio show ho usato Sapore di sale per scherzare con questo aspetto della nostra cultura: sono canzoni che hanno abitato molto il nostro immaginario. Durante la mia infanzia, l’adolescenza, si ascoltavano molti pezzi italiani in tutti gli angoli del Brasile, nel Maranhão dove vivevo.

Il Maranhão, il Nord del Paese, è un posto dimenticato dai media, dalla stampa… Tu hai rifiutato l’offerta di assessorato alla cultura dello Stato.

Il Maranhão è ricordato solo per gli aspetti negativi: la violenza, le aggressioni. Quella dell’assessorato era un’idea ben sciocca. Io faccio musica, preferisco fare politica mettendo insieme le persone, contaminandone le idee, contagiandole con le mie idee. Purtroppo la politica in sé ha finito per essere associata a un affare sporco, al marciume, alla corruzione, non mi piacerebbe vedermi associato a questo.

C’è stata una polemica riguardante un pezzo del tuo ultimo disco, dove dicevi che Caetano Veloso non può essere l’arbitro delle arti…

Io adoro Caetano Veloso, come Gilberto Gil, Milton Nascimento, e sono naturalmente influenzato da quanto hanno fatto. Quello che a me non piace – e quasi sembra una sorta di abuso di potere – è che dall’alto della sua autorità di grande maestro decida cosa è buono e cosa no. È molto paternalista, non mi sembra onesto. Chico Buarque non lo fa, fa le sue cose, i suoi show, mentre Caetano è diventato «politicamente ossessivo». Ciò non toglie che la loro generazione, quella degli anni ’60, è probabilmente ancora la più brillante della musica brasiliana. La mia è una critica politica, non artistica. Gli ho anche scritto chiedendo un chiarimento a proposito di questa polemica, mi ha risposto con molto affetto.

Il Brasile sembra stia vivendo una grande primavera a livello artistico o i media tendono a ingigantire il fenomeno: è realmente così?

Non è solo una questione di media, c’è una grande produzione, artisti che tv, radio e stampa adottano e altri che vengono ignorati, soprattutto se geograficamente periferici, lontani da São Paulo. Nel Maranhão il panorama è ricchissimo, ma non è arrivato ai media. Quanto sta accadendo è che la grande produttività, che è sempre stata una caratteristica del Brasile, va a braccetto con l’accesso ai mezzi tecnologici, e alla possibilità di diffusione, di comunicazione. Quando io ho cominciato registravo in audiocassetta, oggi chiunque incide e mette su web. Con un click si ottiene una qualità professionale, inimmaginabile venticinque anni fa…

Il governo appoggia le politiche culturali?

Quacosa è stato fatto. Di recente è stato votato un provvedimento che ha eliminato l’imposta sulla produzione dei cd, un balzello altissimo. Produrre un disco costa tanto, ci sono le lobbies della zona franca di Manaus, intrecci di interessi politici. Malgrado la crisi del disco questo è un mercato ancora molto redditizio. Ma una cosa è la produzione culturale, e diverse sono le politiche culturali. Dalla gestione di Gil, che non toccò temi che andavano affrontati, come la Ecad e i diritti d’autore, la diffusione radiofonica con le «mance» e le prebende, si sono fatti passi avanti. Operazioni a cui hanno poi dato seguito Juca Ferreira e ora Marta Suplicy (i successivi ministri della cultura, ndr), con provvedimenti come i «Pontos de cultura» che il governo Lula ha diffuso nelle zone più povere del Paese. Ora ci sono i «vale cultura», biglietti per assistere agli spettacoli che vengono dati a operai, impiegati, e sui quali ci sono tante polemiche. Ma, aldilà delle polemiche, se qualcuno può avere dei biglietti per assistere a spettacoli culturali, credo sia sempre positivo. Se poi quel biglietto viene utilizzato per Tchaikovsky o per un baile funky, questo è un problema di chi va allo show.

Parlaci della tua crescita artistica; dallo sviluppo dall’embolada (un ritmo nordestino che unisce poesia e musica) tanto presente nei primi lavori alla musica che fai oggi…

Sono nato a São Luís, la capitale del Maranhão, per caso, la mia famiglia abitava in una città dell’interno a due ore di distanza, su un fiume attraverso il quale sono arrivati molti arabi, libanesi e siriani. C’erano solo arabi e portoghesi. I miei nonni erano siriani, si stabilirono lì e aprirono un negozio. Mio padre aveva una farmacia al centro del paese, la vita culturale era vivace, l’intenso passaggio di collegamento fra il sertao e São Luis, è lo stesso che ha sperimentato Tom Zè nella sua città a Bahia, Irarà. Ho pensato di scrivere una canzone su questo: il nome della mia città, Arari, è il palindromo della sua. Lui parla di come i caboclos (meticci di indios e europei, ndr), matutos (abitanti della mata, del sertão, ndr), coloni, attraverso le loro storie hanno formato la sua immaginazione. A me è successo un po’ lo stesso: emboladores che suonano il pandeiro, improvvisando rime – quello che fanno i rapper oggi esisteva già da molto tempo – repentisti, suonatori di fisarmonica ciechi, felliniani. Io avevo una passione così grande per i ciechi che nel mio primo concerto aprivo con la fisarmonica cantando canzoni di non vedenti, facendomi accompagnare dal figlio adolescente di un mio amico fingendomi cieco, così le persone finivano per credere che lo fossi davvero, e in platea dicevano «poverino». Non sapevo come uscire da quella situazione, era persino pericoloso.. La musica di strada è stata la mia prima «scuola», poi è arrivata la radio, che a casa mia era sempre accesa. Suonava Peppino di Capri, Elton John, tutto, Adoniran Barbosa, Gal Costa, Luiz Melodia, Sergio Sampaio, Martinho da Vila, Odair José. All’epoca la radio era molto più completa, ampia di oggi, meno frammentata: oggi hai un canale di samba, uno di pagode, uno di rap, uno di rock. All’epoca c’era la dittatura militare, ma non esisteva ancora quella del mercato, che in quel periodo si stava rafforzando fino a diventare quello che è oggi. A volte è una dittatura persino più forte: la dittatura militare ha generato cose incredibili, come Gonzaguinha, Milton Nascimento…

Quindi, dopo la stagione tropicalista, che aveva mescolato tutto, ora il mercato ha di nuovo diviso i generi? Si torna indietro?

Io non lo faccio, al contrario, cerco di mischiare il più possibile, per «embalar», per confondere.. La radio per tutta la mia generazione è stata fondamentale, siamo tutti figli della radio, che era molto diversa…oggi non la ascolto più.

Hai anche un’etichetta discografica…

Il lavoro della mia label, la Saravà, è stato sempre in perdita, come mettere una pompa di benzina nel deserto del Sahara: è un’etichetta di dischi fisici nell’era del download, degli mp3. Ma va avanti, è un lavoro appassionato, c’è bisogno di produrre artisti differenti, io ho già fatto fin troppi album, posso anche non farne più…Ho la sacca piena di nuove musiche, ma posso metterle su internet, non è necessario che ne faccia dei dischi, mentre voglio che artisti più nuovi, che ho scoperto, abbiano questa possibilità. Io non smetto mai di comporre, è il mio piacere maggiore. Il palco è fantastico, ma il gusto di comporre una musica nuova è per me incomparabile. La scelta di tenerle per sé o darle ad altri è intuitiva, lo capisci quando la scrivi. Immagino anche moltissimo, quando compongo. Ho scritto tre pezzi per Nana Caymmi, che adoro, e non glieli ho mai mostrati, per timidezza.. Forse un giorno mi chiederà una canzone, almeno è già pronta… La timidezza non mi ha mai lasciato, anche con Gal Costa, l’invito è partito da lei (per A Flor de Pele, ndr).

Scrivi anche su carta e sul web…

La mia attività di scrittore è cominciata in maniera del tutto casuale, in un momento che ero molto coinvolto in una faccenda che mi infastidiva. Se l’avessi affrontata in chiave musicale, sarebbe diventata amara, e io voglio che la canzone, per quanto profonda, porti con sé leggerezza. Così ho cominciato a scrivere sul mio sito, rispondendo alle sollecitazioni del pubblico, mi è piaciuto, e non ho resistito alla tentazione di scrivere per la rivista … È durato cinque anni. È una specie di hobby, qualcosa di distensivo, di differente dalla musica, perché posso affrontare questioni che non stanno in cinque minuti di canzone. Sono testi leggeri, non ho la pretesa di essere scrittore.