Se cercate in rete commenti relativa all’ultima fatica della software house Naughty Dog: Uncharted 4: Fine di un ladro, esclusiva per la Playstation 4 di Sony, troverete chi sottolinea con piacere o con dispiacere a seconda dei gusti la quantità maggiore dei filmati o quella minore delle sparatorie, incapperete in chi esalta la maggiore possibilità di esplorazione. In realtà il gameplay di quest’ultimo capitolo dell’emulo videoludico di Indiana Jones non pare sostanzialmente mutato se non per una qualità grafica che spingerà il giocatore a salvare screenshot (mentre magari il proprio alter ego virtuale si trova pericolosamente appeso a qualche cornicione) come un turista scatterebbe fotografie degli stupendi panorami che gli capiti d’incontrare, che nel caso del decor degli edifici dell’isola dei pirati richiama esplicitamente il grandioso lavoro fatto su The Last Of Us.
Se una caratteristica specifica, rispetto ai 3 precedenti capitoli, può essere predicata di Fine di un ladro è allora piuttosto quella dell’intensità.
Intensità videoludica nel prendersi intelligentemente gioco di semiotici e studiosi quando Naughty Dog permette al giocatore (reale) di far giocare Nathan a Crash Bandicoot (il platform sviluppato nel 1996 con l’intento di creare, per la prima Playstation, una mascotte che rivaleggiasse con il Mario di Nintendo e con il Sonic di Sega) sulla televisione del salotto: interfaccia simulata di un’interfaccia simulata dove è un problema stabilire chi gioca e chi è giocato.
Intensità narrativa nel pathos psicologico della storia che scava nel rapporto tra i due protagonisti: Nathan che deve crescere, abbandonare le avventure – i videogiochi? – per trovarsi un’occupazione stabile e concreta per mantenere la nuova famiglia assieme alla moglie Elena.
Non un caso dunque che la figura anche sessualmente perturbante di Chloe Frazer – compagna di precedenti avventure – sia sostituita dal fratello di Nathan che, se ha il potere di portare sulla cattiva strada, non costituisce una minaccia erotica allo status quo della coppia. E la stanza dei ricordi di Nathan riesce a marcare profondamente nell’appassionato della serie la distanza tra l’avventura e la normalità borghese mostrando guadagni e perdite della crescita.
Intensità artistica nel giocare con l’utopia libertaria dei pirati – anche a costo di abbandonare i mostri più o meno paranormali dei precedenti episodi – per rimandare, consapevolmente o meno, il pensiero del videogiocatore alle «Zone Temporaneamente Autonome» teorizzate da Hakim Bey (pubblicato in italiano da ShaKe edizioni underground nel 1993) proprio sulla base delle utopie pirate del XVIII secolo e non a caso credute applicantesi ad Internet. Ecco allora che Naughty Dog sembra suggerirci che non sono i mostri a porre in crisi queste utopie ma l’avidità, tanto dei pirati quanto delle aziende della cosiddetta «new economy», che si uccidono e divorano gli uni le altre scatenando addosso ai naviganti il mostro ben poco virtuale dell’avidità che fagocita l’imponente messe di dati prodotta per tradurla in casse di oro sonante. Unica soluzione allora il ritrarsi, l’arrendersi, l’abbandonare la perigliosa navigazione rifugiandosi nel tranquillo tran tran della vita normale? È quello che sembrerebbe suggerire questa quarta avventura apparentemente conclusiva. Ma il bello delle Zone Temporaneamente Autonome è proprio anche la loro temporaneità che, se ne prevede l’inesorabile declino, ne preannuncia tuttavia sempre l’inesorabile riapparire. In un’altra avventura?