Mignano Domenico, Montella Antonio, Cusano Marco, Napolitano Massimo e Fabbricatore Roberto hanno vinto. I loro nomi in testa alla prima delle tredici pagine di sentenza della Corte d’Appello di Napoli scritta «IN NOME DEL POPOLO ITALIANO», tutto maiuscolo. Un foglio dattiloscritto che sembra di marmo, con i cognomi e nomi dei cinque operai Fiat licenziati e reintegrati scolpiti a futura memoria. Perché ieri hanno vinto loro, sì, ma soprattutto noi. Noi popolo italiano tutto maiuscolo, al quale la lotta di Mignano Domenico, Montella Antonio, Cusano Marco, Napolitano Massimo e Fabbricatore Roberto ha restituito più di un diritto. Il primo, quello di critica. «Della libertà di valutazione e critica dell’altrui operato (anche del datore di lavoro)», come scrivono i giudici, mettendo ripetutamente tra parentesi il datore di lavoro per ricordargli un fatto scontato: che può essere criticato anche lui.

Il diritto di criticare le strategie aziendali, come i cinque hanno fatto inscenando il suicidio di Marchionne e il suo testamento, dove chiedeva perdono agli operai che si erano tolti la vita a causa della deportazione nel reparto-confino di Nola e raccomandava ai suoi successori di porre rimedio: «Il monito rivolto ai successori dell’attuale amministratore delegato dott. Sergio Marchionne, di non pensare solo al profitto ma anche al benessere dei lavoratori rappresenta a parere della corte una legittima manifestazione del diritto di critica».

Il secondo, il diritto di satira: «La rappresentazione scenica realizzata, per quanto macabra, forte aspra e sarcastica, non ha travalicato i limiti di continenza del diritto di svolgere valutazioni critiche dell’operato altrui (quindi anche del datore di lavoro)».

Il terzo, il diritto all’attività sindacale. Che è un diritto individuale del lavoratore, non del sindacato. La sentenza fa riferimento al ruolo di dirigente dei Cobas di Mimmo Mignano, al fatto che anche gli altri licenziati fossero iscritti.

Il quarto, il diritto al lavoro, che prevale su quello al profitto. La circostanza che esistesse un nesso tra la morte di tre dei loro colleghi e le strategie aziendali della Fiat, scrive la corte «Non può dirsi fondata solo su una loro personale convinzione, né inventata di sana pianta, dal momento che uno dei dipendenti morto suicida aveva lasciato uno scritto nel quale attribuiva tale tragica scelta alla propria condizione lavorativa. Aggiungasi che la collega dei reclamanti, suicidatasi a maggio 2014, Maria Baratto, molto impegnata sindacalmente, aveva alcuni anni prima pubblicato uno scritto intitolato «Suicidi in Fiat» che iniziava così: «Non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti».

La vittoria è merito anche di Pino Marziale, difensore dei cinque operai, che ha smontato gli argomenti della Fiat. E merito di un altro avvocato, quello della Fiat. L’arringa del principe del foro professor De Luca Tamajo, il senior partner dello studio Toffoletto De Luca Tamajo e Soci, ha fornito ai giudici uno degli elementi decisivi all’assoluzione dei cinque operai licenziati dalla Fiat, poiché ha indicato tra i motivi del licenziamento il danno economico arrecato all’azienda dai cinque che avevano osato criticarne le strategie ma poi non solo non ha fornito alcuna prova del nocumento («Non risulta prova del concreto danno, nessuna prova è stata data da parte datoriale») e anzi si vantato del successo dell’azienda a livello mondiale («Risulta per converso che la società ha conseguito notevoli successi a livello internazionale, anche con riferimento al posizionamento del titolo in borsa, come si è potuto apprendere dai giornali, e, peraltro, sui meriti acquisiti dalla Fiat, anche per l’anno 2014, ne ha dato conto la stessa reclamata nella sua memoria difensiva»). Grazie, quindi, anche a lui. A nome del POPOLO ITALIANO.