«Ci sono tante aquile», rispondo a chi mi chiede un giudizio conciso sulla mostra di Marcel Broodthaers alla Monnaie di Parigi, così come direi «tanti specchi» per una di Pistoletto o «tanto ketchup» per una di Paul McCarthy. Con la mostra L’aquila dall’Oligocene ai nostri giorni tenuta a Düsseldorf nel 1972, con oltre 270 rappresentazioni del rapace, Broodthaers strappò l’aquila dai cieli della mitologia, della simbologia evangelica, dell’imperialismo degli stati-nazione per farne il feticcio della sua impresa artistica.

Chi osò tanto? Un poeta che a quarant’anni, alla fine del 1963, decise di diventare artista. Non lo fece per ispirazione, per placare qualche demone interiore che gli tormentava l’animo, ma in modo del tutto deliberato, pianificandolo «a tavolino» come si risolve un’equazione. I lettori dei libri di poesia, si sa, sono scarsi, troppo parchi e astratti da immaginare. Il poeta si chiese così se anche lui poteva conferire una dimensione collettiva al suo lavoro, conquistare un vero pubblico, inventarsi qualcosa d’insincero, insomma vendere qualche cosa.

Diventando artista a quarant’anni, Broodthaers scoprì non tanto le belle arti ma l’audience e lo spettacolo, al punto che anziché produrre opere d’arte – come altri artisti che sono saltati dalla parola all’immagine, dalla pagina all’ambiente – realizzò un museo. Non un museo come tanti ma un museo d’artista, il cui destino è scisso dall’agenda istituzionale e dalla sua logica capitalista. Un museo che è assieme opera d’arte e discorso sul sistema museale, un «détournement istituzionale», una «critica dell’industria culturale» (Rosalind Krauss), un «luogo di contestazione poetica» (Michel Draguet).

Di questo museo Broodthaers è il direttore quanto il primo spettatore, l’artista e il critico, il conservatore e il gallerista. Amplissimo è il suo margine di manovra: del suo museo l’ex poeta dichiara a piacimento l’apertura e la chiusura, esercita pieno controllo sulla collezione e sull’installazione, ne elabora il materiale promozionale, la corrispondenza, i cataloghi (pensati come abbecedari o dadi a 26 facce), le affiches, i comunicati ufficiali e altri documenti, ne orchestra i rituali e le convenzioni burocratiche che diventano a loro volta artefatti da esporre. Unione di arte e critica, immagine e parola, logica visiva e logica concettuale, codice figurativo e codice alfabetico, Broodthaers amalgama Magritte e Duchamp.

Il linguaggio poetico dei suoi esordi incontra il linguaggio della comunicazione, in una tensione tra slanci letterari e impellenze burocratiche, tra estetica spettacolare e logica dell’amministrazione (Benjamin Buchloh), tra ragione speculativa o logico-matematica e dimensione dell’assurdo. Non sorprende che in questo contesto una teoria dell’arte potesse servire da pubblicità per un prodotto artistico.
Broodthaers usa la storia del museo e del collezionismo come un reservoir, un materiale artistico. Anziché esporre delle opere fa dell’esposizione stessa un’opera. Un’arte dell’esposizione che anticipa il post-modernismo e che, a partire dagli anni settanta, chiamiamo Institutional critique.

Il Musée d’Art Moderne Département des Aigles nasce nel 1968 in seguito all’occupazione della Salle de Marbre del Palais des Beaux Arts di Bruxelles e alle proteste contro la gestione della cultura belga come se fosse un brand da consumare. Delle dodici sezioni del Museo, le prime due (Section XIXeme siècle e Section Littéraire) vengono installate nello spazio domestico dell’appartamento brussellese di Broodthaers. Tra queste restano celebri la Section Financière (Colonia 1971) che dichiara il fallimento del museo e ne sancisce la vendita, e la Section des Figures (Düsseldorf 1972), quella con tante aquile ora esaustivamente ricostruita alla Monnaie.

Ma che cosa è una Sezione? Rispetto all’installazione che rimanda alla mera disposizione di materiali eterogenei in uno spazio determinato, la Sezione fa i conti con un ordine soggiacente. Alla lettera, una sezione è anzitutto un’incisione, un’intersecazione, un taglio trasversale che permette di vedere dentro alle cose, di metterne alla luce la struttura interna, di offrirne uno spaccato, un piano di sezione. Una sezione è inoltre una suddivisione, una ripartizione o, nel linguaggio militare, un reparto. Una sezione indica infine non un insieme ma una singolarità, uno specimen, come le lamine sottili poggiate sui vetrini di un microscopio per essere esaminate.

La sezione manifesta così un doppio impulso per la classificazione e per il frammento. È agli antipodi dell’unicità dell’opera d’arte, perché può essere moltiplicata, rendendo visibili le condizioni di produzione dell’opera d’arte e la sua istituzionalizzazione. Allo stesso modo, quella di Broodthaers è un’opera la cui piena realizzazione, la cui totalità è costantemente differita. Le sezioni sono virtualmente inesauribili, come lo è la collezione di aquile. Di cosa esattamente il museo di Broodthaers è la sezione? a quale insieme alludeva: a quello della storia dell’arte, della storia dei musei o a quello più circoscritto e intimo dell’esistente?
Nella sezione mi sembra di riconoscere il cuore pulsante dell’opera di Broodthaers, ovvero il frame della forma-museo, soprattutto a partire dalla scomparsa dell’artista, avvenuta nel 1976, il giorno del suo compleanno, e dall’organizzazione di esposizioni postume. Come esporre un museo all’interno di un museo? dove passa lo scarto tra il museo di Broodthaers e l’istituzione che lo accoglie? come lavorare, celare, colmare, attraversare quella soglia sottile ma affilata come una lama? Sottile come i terreni angusti acquistati da Gordon Matta-Clark nel Queens, vialetti d’accesso, marciapiedi, lastre per pavimentazioni stradali, grondaie, canali di scolo: proprietà in vendita ma per la maggior parte fisicamente inaccessibili.

Cosa accade quando il museo (m) immaginifico di Broodthaers entra in un museo (M) vero e proprio? Non basta mettere m dentro M, fare di m una parte del tutto M, farne una sezione perché, lo abbiamo accennato, m è già in sé una sezione. Non c’è il rischio che m si mangi M (il contrario della storia del pesce piccolo e del pesce grande), che la stramba collezione privata di un poeta-artista diventi l’anamorfosi che riflette e distorce l’istituzione museale?

Verosimilmente M e m restano in una tensione irrisolta, in una zona di indecidibilità, a volte inavvertita altre volte lancinante: mi sento evolvere all’interno della Monnaie e, un attimo successivo, all’interno del Département des Aigles; transito senza soluzione di continuità da m a M e da M a m quasi senza accorgermene.

Tutto è frame in Broodthaers. Le vetrine, con la loro trasparenza e la loro messa a distanza dell’oggetto esposto, con la loro accessibilità controllata. Il vasetto di vetro da marmellata in cui è rinchiusa la foto di un occhio presa da una pubblicità di cosmetici (L’oeil, 1966). Le casse da imballaggio in legno, sarcofagi resi viventi dalla proiezione di diapositive di opere d’arte di un museo immaginario. La didascalia Questa non è un’opera d’arte o il magrittiano Fig. da cui, a detta di Broodthaers, si sarebbe potuta ricavare una teoria dell’immagine che non esplicitò mai. La Salle utilizzata nel 1975 all’Hôtel de Rotschild di Parigi, dove gli spazi si embricano uno nell’altro: la Salle Blanche ricostruisce l’interno del suo appartamento-museo brussellese, infittendo così la confusione tra m e M.

Broodthaers ha messo il paratesto museale al cuore della sua pratica artistica – una gioiosa messinscena del fenomeno artistico. Museo, Dipartimento, Sezione: una tassonomia culturale, ordinata in modo gerarchico, che rende visibile l’equazione tra l’idea dell’arte e l’idea di potere (Thierry de Duve). E che non dimentica le ragioni della poesia: a Broodthaers bastò cancellare qualche lettera per trasformare una Carte du monde politique in una Carte du monde poétique (1968). Il poeta che diventò guardiano del suo museo ci ha lasciato un lavoro inclassificabile che non si risolve né nell’immaginifico surrealista né nelle fredde tavole dell’arte concettuale ma si situa in un entre-deux visivo e linguistico inesplorato. Una gerenza poetica dell’esistente, dall’Oligocene ai nostri giorni perlomeno.