È così intatto e puro il tocco di bianco che la minima porzione di superficie ove si distende diviene il punto di fuga prospettico della intera composizione. Catalizza l’armonico costiparsi, ciascun colore nel recinto assegnato, delle terre, dei verdi marci e d’un breve cobalto pallido stesi tra orizzontali bacchette ardesia che vaporano. È un punto di luce candida, a contrasto del nuvolone antracite che cala dal margine superiore della tavola. Vi si espande gravido per cinquanta due centimetri e mezzo, la misura intera del bordo, lasciando che sotto la sua coltre, a destra, una chiarìa si sfrangi in vene di cadmio e di rosa dietro gli edifici e la cupola dei Santi Giovanni e Paolo. È una luce abbagliante a sfondo d’un Colosseo cariato, leso, che si profila appena sul lato sinistro del dipinto. Senza attributi di monumentalità, anzi adeguato alla proporzione delle case intorno e di certi alberelli spogli che dai cortili, oltre i cornicioni, spuntano e non sapresti dire che frutto maturino. Reca un sentore d’orti e di paese questa corrusca Veduta dalla terrazza di via Cavour che Mario Mafai compone nel 1928 (olio su tavola, cm. 31,3 x 52,5).

Ha scritto Libero De Libero: “la sua sosta nei Fori e al Colosseo era una vicenda del suo affacciarsi al balcone di casa; e da quel balcone, lassù in cima, vedeva cupole e tramonti fumare di rosso e di viola”. Nel 1937, Mafai espone alla Galleria della Cometa, Demolizione di via Giulia (olio su tela, cm. 62 x 69, oggi nella romana Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea). Puoi vedere che d’un antico palazzo resta ormai solo un fianco. È sorretto dai resti inclinati di quattro muri maestri lasciati a puntello, a provvisoria scarpa di sostegno. Alto di fronte a noi, l’edificio abbattuto esibisce i cinque livelli sovrapposti che accoglievano la successione delle sue numerose stanze. Diroccate e sparite tutte, i pavimenti e i soffitti abbattuti, di alcune resta una parete sola, le porte serrate sul vuoto. Mafai sublima per magia di pittura l’aspetto del rudere e lo muta in un intarsio donde si aprono, in variazioni cromatiche congiunte, le corrispondenze di supreme danze che han preso avvio dalle tinte degli intonaci superstiti: si accostano i celesti all’arancio, è corteggiato un nocciola da un verde Veronese.

Emilio Cecchi scrive di un colore “svariato fino alla preziosità dei più eleganti incontri e richiami tonali”. In quei colori, integri nel modulo quadrato che li accoglie, son trattenuti, come in altrettanti cassetti di un cabinet concepito da un ebanista del seicento, segreti e lasciti preziosi. Richiamano alla soglia chiusa delle porte, per un’ultima sosta, le vite e i tempi andati. Panorama di Roma al crepuscolo (olio su tela, cm. 72 x 92) è esposto nel 1957 a LaTartaruga di Plinio De Martiis. Tutti gli intonaci di Roma si sono staccati dalle pareti delle case, dei monumenti e delle chiese, franti in un numero infinito di lamelle. Malte, sabbie e pozzolane conservano i colori che il tempo ha appannato, calati d’un tono. O, forse, sembrano appena spenti per via d’una polvere, una cipria leggera che si è depositata sopra ciascuna sfoglia con le demolizioni. Mafai raduna a colpi di pennello lamine di rosso mattone, scaglie di ocra tenera, pellicole di azzurri sbiancati. Squame dell’epidermide che riveste Roma a strati di rinzaffi, arricciature e stucchi e di povere tinte a acqua e mestiche, parete per parete nel corso dei secoli. Paesaggio romano, secondo Lionello Venturi, dove “c’è solo il vibrare cromatico, cioè la vita delle cose senza le cose, la grandezza infinita della città senza la città”.