Khalil Nazary, un ragazzo afgano di 26 anni, è morto annegato martedì a Trieste alle cinque del pomeriggio, durante l’ora del passeggio davanti a Piazza Unità, il salotto buono della città.

Le cronache locali gli hanno riservato un articolo a fondo pagina in cui si dà per certa l’ipotesi suicidio di un tipo “socialmente pericoloso” con un passato di molestie e per questo confinato ai domiciliari in una Comunità di San Nicolò. Ma la notizia vera non è il poco probabile suicidio di un giovane afgano che, riporta solo marginalmente il quotidiano triestino, soffriva di turbe psichiche provocate dal suo difficile passato (tanto da essere imbottito di farmaci).

La notizia è che nessuno dei passanti si è gettato in acqua per tentare di salvarlo anche se la coscienza collettiva si è lavata con una chiamata al 113 che ha mandato una pattuglia per ripescarne il cadavere.

Solo alcuni mesi fa un altro afgano si era suicidato levando la pistola a un poliziotto e sollevando polemiche non tanto sulla condizione dei rifugiati, quanto sulla sicurezza della gente perbene in balia di simili follie. Nella città di Basaglia (che al celebre psichiatra non ha dedicato nemmeno un vicolo) si derubricano rapidamente i fatti utilizzando concetti ottocenteschi, al più stendendo un velo di pietà misericordiosa su una diversità evidentemente mal sopportata. Il suicidio, gesto folle per eccellenza, vero o presunto che sia come nel caso di Khalil, nasconde sotto il tappeto lindo del salotto buono un dramma sociale incasellato nella più comoda delle definizioni. La famiglia, sconvolta, ha sporto denuncia e vuole vederci chiaro.

Ieri alcune persone sono tornate sul luogo del dramma per gettare un fiore in mare. Un gesto di solidarietà umana che, il giorno prima, forse gli avrebbe salvato la vita con un paio di bracciate.