Adrian Margaret Smith Piper (New York, 1948), artista straordinariamente complessa, ha inaugurato la sua prima retrospettiva europea con oltre 100 opere, al Pac di Milano, Race Traitor, curata da Diego Sileo (visitabile fino al 9 giugno) che ripercorre i suoi sessanta anni di carriera. È quasi un evento epifanico. Piper ama auto-definirsi un «soggetto di razza mista, come tutti gli americani» poiché è per 1/32 malgascia, per 1/16 nigeriana e per 1/8 dell’India dell’est, oltre ad avere antenati britannici e tedeschi e in più si ritrova con un nome maschile in un corpo da donna. «Il termine ’razza’ non si riferisce a nulla di reale. È piuttosto una fantasia, come la Fatina dei denti, che le persone usano da circa trecento anni per vari scopi di autoesaltazione o autocondanna», confida in una intervista. Ed è dalla sua soggettività deviante, che nasce una ricerca paradigmatica.

Adrian Piper, “Everything #2.8”, 2003

Laureatasi alla School of Visual Arts, specializzatasi in filosofia alla Harvard University, studiando Kant e Hegel all’Università di Heidelberg, ha insegnato al Wellesley College, all’Università di Harvard e del Michigan e alla Stanford University. La sua attività teorica consta di due volumi sulla metaetica kantiana, Rationality and the Structure of the Self, Volume I: The Humean Conception e Rationality and the Structure of the Self, Volume II: A Kantian Conception, oltre a Escape to Berlin (tradotta in italiano da Silvana Editoriale per la mostra) in cui racconta la sua fuga dagli Usa per Berlino, dove vive e lavora dal 2005. Leone d’oro come miglior artista alla LVI Biennale di Venezia nel 2015, si autodefinisce «first-generation Conceptual artist and analytic philosopher».

LA BLACK SUBJECTIVITY è il fondamento della sua ricerca che tende a sradicare molti stereotipi razziali, grazie alla ricognizione della storia, della struttura familiare, delle pressioni sociali ed economiche e delle interpolazioni di genere. Un approccio intellettuale che la porta a disossare le pratiche vigenti per riconiugarne i linguaggi, disarticolarne la semiologia, scomporne i significati sofisticatamente intellettivi. L’incipit espositivo è dato dalla serie LSD Paintings (1965-67), realizzata con colori psichedelici ed esposti per la prima volta nel 2002, nella Galleria Emi Fontana di Milano. Questo ciclo di disegni e dipinti indotti dall’Lsd (legalmente in uso negli Stati uniti negli anni Sessanta) è legato alle esperienze psichedeliche giovanili nella sperimentazione di un livello di coscienza superiore.

LE SUE PRATICHE sono poliedricamente infinite: foto, disegno, installazione, video, uso massiccio di quotidiani e performance. In Race Traitor (2018) l’artista utilizza il proprio ritratto sovrapponendolo a frasi con l’intento di auto-ironizzare sull’essere e l’apparire. Così Das Ding-an-sich bin ich (2018) dalla citazione kantiana (La cosa in sé sono io). In Art for the Art World Surface Pattern (1976) accorda la riflessione concettuale e l’estetica minimalista al default dell’integrazione sociale. Una sorta di cubo bianco è rivestito da piccole immagini in b/n tratte dai giornali che evidenziano le efferatezze sociali. Su di esse, Piper stampiglia la frase Not a Performance, accompagnandola con un audio che trasmette il bisbiglio degli spettatori indifferenti ai drammatici accadimenti del mondo. Un autentico preludio di temi come l’alienazione sociale, il razzismo e la xenofobia vengono analizzati nel collage Think About It (1983-1987), nella serie Safe, 1990, in Decide Who You Are (1992) e anche nel calamitante Everything (2003-in progress) che include Everything Will Be Taken Away 2, foto modificate che ripetono la frase del titolo nascondendo i soggetti e gli eventi raffigurati. Frase che viene reiterata su quattro lavagne vintage. Ma è con Untitled Performance at Max’s Kansas City (1970) che Piper si introduce nella pratica performatica. All’interno del bar, Piper, isolandosi dall’ambiente circostante grazie all’uso di guanti, paraocchi, tappa-naso, tappi per le orecchie si muove tra i tavoli e gli avventori, seguita dalla fotografa. La sfida a ciò che costituisce il codice pubblico e l’ordine preesistente nella vita quotidiana, il loro scardinamento e la reazione del corpo sociale la introducono a Catalysis (1970-73) un ciclo di sette performance di strada, in cui Piper attraverso comportamenti incorrects, prova ad esplorare il concetto di soggettività collettiva che definisce e fissa la condotta attraverso stereotipie uniformanti.

PASSA POI alla performance Some Reflected Surfaces (1975), Funk Lessons (1983-1985) e Adrian moves to Berlin (2007) per suggellarsi nella strepitosa The Mythic Being (1973-75) opera mix-media sull’odio razziale. Nel 1973 innesca il suo alter-ego, utilizzando un personaggio urbano e macho, consono al genere emergente dei film blaxploitation, adottando un abbigliamento tipico della working class, truccandosi da uomo di colore dalla pelle chiara, con una parrucca afro, un paio di baffi finti e un paio di occhiali a specchio. Inizialmente, il progetto assume l’aspetto di una serie di inserzioni pubblicitarie mensili nelle pagine d’arte della rivista Village Voice, in cui, affiancate alle foto dell’artista come Mythic Being, vengono disegnate delle bolle che riportano delle frasi sconvenienti, scritte a mano in stampatello e tratte dal suo diario adolescenziale. Nella versione performatica, Piper, nei panni di Mythic Being, passeggia per le strade di New York e del Massachusetts, fumando e recitando dei mantra ad alta voce, estratti dal suo diario scritto nel 1961, provocando spaesamento e disagio generale. Ma c’è ancora altro nella mostra per pensare e non solo «vedere».