«Un popolo ha detto ‘basta’». È un verso dello scrittore Sándor Márai che figura negli imponenti cartelloni governativi affissi ai muri per celebrare il sessantesimo anniversario della rivolta ungherese del 1956. In essi compaiono le immagini dei combattenti di allora, per lo più giovani, gente che si rese protagonista degli scontri a fuoco avvenuti nelle strade di Budapest in quei giorni d’autunno. Da questa solenne scenografia restano esclusi Imre Nagy e i diversi membri del governo insorto, condannati a morte o a pene detentive nel 1958. Per il governo e la retorica di destra attualmente al potere o comunque in auge nel paese, i «Pesti srácok», ossia i ragazzi del ’56, sono i veri eroi dell’insurrezione, gli autentici protagonisti di quella pagina della storia ungherese. Non il comunista Nagy e i suoi collaboratori, anch’essi comunisti. Una visione che distorce i fatti, sottolineano i critici che vedono minacciata la memoria storica del Paese. Del resto, non sarebbe la prima volta: il monumento alle vittime del nazismo voluto dal governo due anni fa per celebrare il 70° anniversario dell’Olocausto è, secondo numerosi storici, un’aberrazione, in quanto presenta l’Ungheria unicamente come vittima della furia nazionalsocialista e provvede a scrollarle di dosso la responsabilità delle persecuzioni e della deportazione degli ebrei.

Il governo del Fidesz è impegnato in una riscrittura della storia patria che esalta le virtù della nazione e l’aspirazione di quest’ultima alla libertà, attraverso una lotta che si ripete nel tempo: ieri contro il sistema stalinista, oggi contro l’Ue e contro tutti i poteri esterni che vorrebbero ancora una volta comprimere l’Ungheria e impedirle di realizzare il suo destino. Si tratta di una versione dei fatti che non incoraggia l’autocritica, ma tant’è.

Oggi il paese ricorda questo nuovo anniversario tondo della sollevazione del ’56 in un clima di tensione un po’ come dieci anni fa, ma allora al governo c’erano i socialisti e i loro alleati liberaldemocratici. La popolazione è tuttora solcata da divisioni di carattere politico ed economico. Tra i sostenitori del governo e quelli dell’opposizione c’è una distanza che pare incolmabile. L’esecutivo è accusato di portare avanti una politica antidemocratica che allontana il paese dall’Europa, l’opposizione e chi sta dalla sua parte, di non avere a cuore gli interessi nazionali.

Di recente ci sono state manifestazioni di protesta contro la chiusura del Népszabadság, principale quotidiano dell’opposizione. Nuove dimostrazioni antigovernative sono previste anche per oggi in diversi punti della città. Il malessere è palpabile. Nel suo ultimo libro – Diario del pancreas – lo scrittore Péter Esterházy, scomparso tre mesi fa a 66 anni, scriveva in riferimento al ’56: «Provo a pensare alla rivoluzione. Quanta abiezione, doppiezza, menzogna, usurpazione, stoltezza si raccolgono all’ombra di uno dei momenti più importanti della nostra storia. Bisognerebbe provare gioia per un giorno come questo». Così non è, invece.