«Frankie è stato sfrattato, lavora in fabbrica dalle 7 alle 17 ma non ce la fa, è troppo dura. Frankie è disperato, ha deciso di uccidere moglie e figlio. Punta la pistola al bimbo di sei mesi nella culla e spara, oh Frankie, poi guarda sua moglie e le spara, Dio cosa ho fatto, un applauso per Frankie. La lacrima di Frankie. Frankie si punta la pistola alla testa, Frankie è morto, Frankie è all’inferno. Siamo tutti Frankie, siamo tutti all’inferno».
Titolo: Frankie Teardrop, durata: 10:26. Il pezzo riempiva quasti tutta la seconda facciata di Suicide, debutto omonimo del 1977, di Martin Rev e Alan Vega, cioè i Suicide. Era sconvolgente, così come il resto del disco. Il tappeto elettronico reiterato a base rockabilly, minimale, spesso identico a se stesso di Martin Rev si mescolava a una voce che mai messuno è stato in grado di ripetere, nemmeno lo stesso Vega (vero nome Boruch Alan Bermowitz). Ansiogena, maniacale, dannata. Ascoltare quella canzone e l’intero disco a luci spente, a casa, da solo, era un’esperienza che potevi fare una sola volta. I Suicide non avevano bisogno di chitarre o batterie per essere punk, lo stesso furore sonico di Ramones o Sex Pistols passava attraverso le tastiere, solo quelle. Con una differenza: i personaggi raccontati dai Suicide (come indicava lo stesso nome) erano tutti senza redenzione e in viaggio verso il nulla eterno. Tutti Ghost Rider (primo pezzo dell’album), tutti viaggiatori fantasma perché «America’s killin’ its youth» (un verso da Ghost Rider), l’America sta uccidendo i suoi ragazzi.
Alan Vega, scomparso la scorsa settimana (16 luglio) a 78 anni (nato il 23 giugno 1938), era il faro vocale di una band che negli anni e attraverso cinque album in studio – Suicide (1977), Suicide: Alan Vega and Marin Rev (1980), A Way of Life (1988), Why Be Blue (1992) e American Supreme (2002) – ha ispirato una sequela di artisti: dai Depeche Mode e Daft Punk agli U2, dai Radiohead e Rem a Bruce Springsteen. Questi rieseguirà un loro pezzo Dream Baby Dream sull’album High Hopes e ancor prima, in Nebraska, inciderà State Trooper, palese omaggio a Frankie Teardrop; con simile voce ansiogena, riverberata il giusto e con simili urla dannate sul finale. Il cantante e il boss diventeranno amici e dal vivo Springsteen omaggerà spesso la band. La notizia della morte è arrivata tramite il sito di Henry Rollins, grande amico di Vega, informato direttamente dalla famiglia. Riportava che Alan era morto nel sonno e non si faceva accenno ad alcuna causa specifica. Come solista inciderà una ventina di dischi ma solo i primi tre – Alan Vega (1980, all’interno il pezzo Jukebox Babe), Collision Drive (1981), Saturn Strip (1983) lasceranno il segno. Di certo mai paragonabile a quanto fatto con il debutto dei Suicide. Piuttosto arriveranno chitarre colme di eco e riverbero e voci tremule abbinate al rockabilly, suo grande amore.
In Saturn Strip, prodotto da Ric Ocasek (The Cars, già produttore dei Suicide dal 1980) sconfinerà nel pop ma Vega era altra cosa. Tra i suoi ispiratori c’era Iggy Pop da cui rimarrà fulminato nel 1969 (gli Stooges aprivano per gli MC5 al Pavilion di New York); da Iggy imparerà come stare sul palco, tra fisicità, antagonismo senza limiti e iperviolenza: cosa poteva scatenare il suono di un Farfisa e la voce di Vega è documentato nel disco 21½ Minutes in Berlin/23 Minutes in Brussels (live del ’78). Nel tentativo di arrestare il concerto, uno spettatore ruppe il naso di Vega con l’asta del microfono; un anno dopo a Glasgow durante un concerto come supporto dei Clash un’accetta volerà verso Vega mancandolo; a Crawley, nel Sussex, i naziskin gli romperanno di nuovo il naso. Amare i Suicide era una fede. In origine erano in tre (un chitarrista), poi dal ’72 si esibiranno sempre in due. Saranno tra le prime band ad autopromuoversi come «punk», quando il termine connotava generi completamente diversi (il garage rock anni Sessanta più sgangherato e feroce). In un volantino del ’71 definivano il loro concerto «Punk Music Mass», una messa punk.
Memorabili i live al Mercer Arts Center, al Max’s Kansas City o al Cbgb in cui andava in scena un minimalimo sonico che Alan Vega aveva mutuato da artisti come Ad Reinhardt (noti i suoi quadri nero su nero) e che riproporrà negli anni nelle sue opere artistiche (sculture lignee, croci illuminate, autoritratti o altri lavori derivati perlopiù da oggetti di scarto ecc.) capaci di evocare lo stesso mondo consumista distopico raccontato dai suoi Suicide. Questo resta di Vega, in origine uno scultore, un artista visivo, semplicemente un grande classico newyorkese.