La cornice è la bellissima terrazza di un albergo romano vicino al Colosseo, la giornata è prematuramente calda per essere marzo, l’ospite attende placidamente sdraiato su una poltrona da esterni l’ennesima gratifica al suo narcisismo: chiama James Ellroy, indossa pantaloni a costine di velluto verdolino, una giacca spigata marrone e sotto l’immancabile camicia a motivi hawaiani; il pezzo forte sono i calzettoni, ovviamente intonati a nulla, sono di lana a coste come quelli che si portano in montagna, a fili blu e bianchi intrecciati. Fuori ci sono 22 gradi. Cominciamo.

Nel suo romanzo, che si svolge tutto nei giorni di Pearl Harbor e dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, l’antisemitismo e le simpatie degli americani per le potenze dell’asse sembrano molto più diffuse di quanto comunemente non si creda. Pensa che lo stato di cose che lei descrive nel romanzo corrisponda alla realtà?

Sì, era così. Scrivendo questo libro mi sono reso conto di quanto fosse diffuso l’antisemitismo allora. Non un antisemitismo genocida come quello di Hitler, ma un antisemitismo petulante, colmo di livore. Non bisogna dimenticare che allora gli americani tendevano a credere a qualsiasi cosa. C’era un predicatore che andava diffondendo l’idea che gli ebrei controllassero Wall Street, l’alta finanza ma anche il comunismo, e predicava affinché l’America rimanesse a tutti i costi fuori dalla guerra. Inoltre c’erano diverse correnti che si muovevano sul fronte della demografia e su quello dell’eugenetica: nella sua versione «di sinistra» questa doveva servire a creare americani forti e gagliardi, mentre in quella di destra doveva costruire una «razza padrona» che avrebbe soggiogato il mondo.

Il suo romanzo racconta l’internamento forzato di decine di migliaia di americani di origine giapponese subito dopo Pearl Harbor e nei primi mesi del 1942. Lo ritiene un episodio importante nella storia degli Usa, e se ne conserva ancora il ricordo?

Quell’internamento ha significato la soppressione dei diritti civili più vergognosa e indegna nella storia degli Stati Uniti, o almeno della California, dove il ricordo di quella vicenda è ancora vivo, anche se bisogna un po’ andarselo a cercare. Non saprei dire se sia lo stesso anche nel resto dell’America.

Pensa che, come scrive nel romanzo, l’occasione sia stata davvero sfruttata da qualcuno a fini di lucro o comunque per qualche profitto?

Beh, di certo non potrei contraddire quello che ho scritto in Perfidia. Ma in questo libro, come in tutti gli altri, ciò che più mi stava a cuore era descrivere una determinata condizione esistenziale. Se il tema degli interessi economici che stanno dietro l’internamento funziona sul piano drammatico, bene allora lo uso nel romanzo. Però, se manovre speculative del genere di cui racconto ci siano state realmente o no, questo non saprei dirlo.

Nei suoi romanzi compaiono sempre personaggi storici reali, ma sinora in veste di comprimari. «Perfidia», per la prima volta, introduce tra i protagonisti un personaggio reale, William H. Parker, comandante famosissimo del Los Angeles Police Department dal 1950 fino a metà anni ’60. Perché ha scelto proprio lui?

Perché penso che Parker sia stato in assoluto il miglior poliziotto degli Stati Uniti nel XX secolo. Era un uomo pieno di paradossi, fino all’inverosimile. Era combattivo, litigioso, di pessimo carattere ma con il cuore tenero. Era un progressista e un reazionario. Molto pio, ma incline alla dissipazione. Era un alcolizzato all’ultimo stadio, nipote e figlio di due alcolizzati che si erano ammazzati bevendo. Aveva più volte giurato di smettere e ci aveva provato, solo per tornare a ritrovarsi preda dell’alcol. Verso la fine della sua carriera e anche della sua vita, nel 1966, il mondo lo aveva sorpassato. Nonostante fosse il capo del Los Angeles Police Department non è stato capace di adeguarsi alle trasformazioni sociali che stavano travolgendo gli Stati Uniti. Alcuni commenti venati di razzismo, dopo la rivolta dei neri a Watts del 1965, hanno macchiato la sua reputazione e la sua memoria. La mia ambizione era restituire a William H. Parker alla sua dimensione più umana.

Tra i protagonisti di «Perfidia» ne compaiono due che erano stati tra i personaggi principali della prima tetralogia di L.A.: sono Kay Lake, la ragazza di «Dalia nera», e il poliziotto corrotto Dudley Smith, presente in tutti e tre gli altri romanzi del «L.A. Quartet». Ha voluto restituire anche a loro uno spessore più umano?

Proprio questo intendevo quando ho deciso di riprendere Dudley Smith: aveva bisogno di uno sguardo più empatico. Nei tre libri in cui era già comparso si trattava invariabilmente di un mostro. Non direi la stessa cosa a proposito di Kay Lake. Già in Dalia nera si avvertiva perfettamente la mia profonda simpatia per lei.

A proposito di «Dalia nera», perché ha scelto di immaginare la vera Dalia, Beth Short, come figlia di Dudley Smith?

Perché potevo farlo. Perché volevo rendere onore a Elizabeth Short. Perché potevo e volevo ritrarla da viva, con una personalità vivace. Dato che era nata a Boston, nel 1924, potevo in qualche modo ricollegarla alla famiglia Kennedy e quando tutto ciò ha preso forma nella mia testa mi sono detto: «perché no?».

I personaggi più privi di umanità, in questo come negli altri suoi romanzi, sono in realtà grandi capitalisti: sia quelli realmente esistiti come Joe Kennedy, sia quelli da lei inventati come Preston Exley. In un autore che ha sempre marcato la propria distanza e la propria scarsa simpatia per ogni suggestione «di sinistra» è singolare un’analisi tanto cruda e spietata del capitalismo americano…

Quelli sono Joe Kennedy e Preston Exley, non il capitalismo americano. Quanto a me, sì, sono un capitalista. Penso che il capitalismo sia morale, mentre il socialismo e il comunismo siano immorali. Credo nella necessità di tenere basse le tasse e credo anche, fermamente, nel ruolo dominante dell’America nella politica mondiale.

Eppure in quasi tutti i suoi libri vengono raccontati episodi storici, come quello dell’internamento dei giapponesi, che rivelano il razzismo e la prepotenza annidati come un cuore di tenebra nell’identità americana: gli Zoot Suits Riots in «Dalia nera», la vicenda di Sleepy Lagoon nel «Grande nulla», la «domenica di sangue», in «L.A. Confidential», solo per citarne alcuni. Come concilia il suo interesse e la sua abitudine di riportare alla luce questi fatti poco noti della storia americana con la sua fede assoluta negli Stati Uniti?

Il fatto è che amo il crimine. Amo leggere e scrivere storie di crimine. Amo l’animosità razziale, pur non praticandola di certo, perché non odio nessuno. Ma un bel crimine con motivazioni razziali alle spalle mi dà gusto. Mi piace un bello scandalo nella polizia. E godo a ideare delle belle e corpose ingiustizie. Però, stia attento: questi fatti molto raramente accadono come la gente pensa che accadano. Per esempio, io sono sicuro che Sacco e Vanzetti fossero colpevoli. Sono certissimo che i Rosenberg siano stati giustiziati a ragion veduta per spionaggio atomico. Tutte queste vicende possono sempre essere viste da un’altra prospettiva, a meno che non si sia dotati di un occhio da agit-prop o non si adottino posizioni ideologiche rigide, sia di destra che di sinistra. Tra le persone accusate nelle vicende che ho ripreso nei miei libri – penso al caso degli Scottsboro Boys o a quello della Sleepy Lagoon – credo che più d’una fosse effettivamente colpevole. Ne sono convinto, e lo dico da figlio di una madre assassinata, da lettore attento degli archivi della polizia e da uomo costantemente lacerato tra una pulsione anarchica e la ricerca dell’ordine.

Quando ha deciso di riprendere i personaggi della prima tetralogia, aveva già chiaro in mente chi sarebbero diventati e come li avrebbe sviluppati nel nuovo ciclo?

Assolutamente no. Non sapevo cosa avrei fatto di loro, ma sapevo di non potere in alcun modo contraddire me stesso e quanto avevo scritto nel romanzo che inaugura L.A. Quartet, che, pur essendo scritto prima, è cronologicamente posteriore.

Ma il romanzo è un genere che permette ogni cosa, anche di contraddirsi, come del resto hanno fatto tanti scrittori, inserendo nei loro personaggi elementi contrastanti rispetto a quelli che aveva loro attribuito in precedenza. Molti autori sostengono che i loro personaggi imboccano direzioni che non avevano previsto, lei ritiene invece di averli del tutto sotto il suo controllo?

Certo, naturalmente è così. I personaggi non esistono se non per come io li faccio esistere. Non creda mai a quegli scrittori secondo cui i personaggi hanno preso il sopravvento e sono andati in una direzione imprevista. Quel che stanno dicendo, in realtà, è che li hanno messi di fronte a diverse opzioni drammatiche e poi ne hanno scelto una. Ma la scelta l’hanno fatta loro, non i loro personaggi, e ritengono che quella scelta sia stata sorprendente ai propri stessi occhi.

Tutti i personaggi di «Perfidia» sono molto tenebrosi e sono tutti, in un modo o nell’altro, dei traditori. Sono anche ossessionati da un oggetto del desiderio di natura sentimentale. Tutto ciò vale come via di redenzione dai loro tradimenti?

Ma le persone sono fatte così! E io penso che questo anelito sentimentale, questa ricerca di appartenenza che attribuisco ai personaggi ai quali lei fa riferimento siano estremamente complessi. Inoltre bisogna tener conto del momento storico in cui si svolge la vicenda: l’America era uscita dalla Grande Depressione e si stava avviando verso la seconda guerra mondiale, messa di fronte a un fatto compiuto: «Devi entrare in guerra – si diceva – perché non lo si può evitare». C’era una consapevolezza generalizzata di cosa avrebbe significato quella guerra per gli Stati Uniti, per il loro ruolo, per il destino del mondo: l’America come fucina di gran parte dell’arte più significativa del XX secolo. La guerra è anche una grande forza che abbatte le barriere sociali e cambia persino i costumi sessuali. Questa era la situazione: Yates lo chiamava lo spiritus mundi, ma noi potremmo anche definirlo l’inconscio collettivo. In un simile contesto, perché mai questi quattro personaggi, tutti di intelligenza estremamente brillante, ciascuno capace di pensare in modo originale, ciascuno profondo come l’oceano, non avrebbero dovuto incontrarsi e trovare una sorta di convergenza? Tutti e quattro sono messi insieme, come se fossero una sola persona. Sono tutti legati tra loro da questa terribile realtà dell’attacco giapponese a Pearl Harbor e dall’entrata in guerra dell’America.

In «Perfidia» si avverte anche una forte presenza del cristianesimo…

È così ed è strano visto che sono protestante: i personaggi che incarnano questa presenza del cristianesimo sono Parker e Dudley Smith: due cattolici. Le ricordo che, quando i due stringeranno un accordo a carattere religioso di fronte all’arcivescovo, sarà Parker a tradire, mentre Dudley Smith il cattivo, Dudley Smith «il mostro» manterrà la parola.

Lei è uno dei principali sperimentatori che ci siano oggi nella letteratura americana. A partire da «Sei pezzi da mille», in ogni suo libro la ricerca stilistica costituisce una sfida nei confronti del lettore, perché a una trama avvincente si accompagna uno stile che richiede un fortissimo impegno da parte di chi legge…

La devo contraddire. Sicuramente la concisione estrema è una cifra stilistica che ho portato alle estreme conseguenze in Sei pezzi da mille, ma i miei libri successivi, Il sangue è randagio e ora Perfidia, sono opere molto più facili. Dal punto di vista emotivo sono più accessibili. Rappresentano anche questi una sfida, ma di tipo diverso: i miei lettori sono abituati a romanzi assolutamente sempre ossessivi, ma di solito più freddi. Anche Perfidia è ossessivo, ma ha il cuore più caldo. Tre dei quattro personaggi principali, il chimico forense giapponese Ashida, Kay Lake e Parker, fondamentalmente ispirano simpatia nel lettore. È facile prendersi a cuore la sorte di Ashida e Kay e in fondo è quasi facile anche prendersi a cuore quella di un tipo come Parker.

Lei è senza dubbio un caposcuola. Quali autori e quali libri riconosce, se ce ne sono, come sue fonti di ispirazione?

Libra, di Don DeLillo. True Confessions di John Gregory Dunne. I romanzi di Joseph Wambaugh, che prima di diventare scrittore era stato polizotto del Los Angeles Police Department. Il postino suona sempre due volte, Mildred Pierce e La morte paga doppio di James M. Cain.