Se non avete prenotato per tempo, trovare da dormire a Edimburgo a fine agosto è un’impresa quasi impossibile. Da decenni questo è uno degli effetti tipici del festival, una manifestazione che è difficile raccontare da una singola prospettiva: per molti vuol dire scoprire nuove drammaturgie e compagnie teatrali nella sezione ufficiale o al Fringe Festival; per altri seguire concerti memorabili, e produzioni d’opera e balletto che lasciano il segno. L’icona del festival rimane il «lone piper» che suona alla spianata del castello, durante la grande parata militare del Royal Tattoo: un evento amatissimo, dalle radici antiche, ma anche una gigantesca kermesse mediatica – incluso qualche sconfinamento nel kitsch – trasmessa in oltre trenta paesi del mondo, con una caccia al biglietto che comincia regolarmente con un anno d’anticipo.
Pochi sanno però che per un caso il festival non si tiene a Oxford: era infatti fra le mete considerate nel 1946 quando si pensò a una manifestazione che offrisse un palcoscenico nuovo, in una città non devastata dalla guerra, ai teatri e alle orchestre inglesi e internazionali, dando un rinnovato impulso alle arti. Dietro l’intero progetto c’era la mente brillante di Rudolf Bing, impresario di origine austriaca, fuggito dalla Germania nazista nel 1934 per diventare il general manager del festival di Glyndebourne, esperienza innovativa che univa formule produttive leggere, mecenatismo d’élite e alta qualità artistica, secondo un combinato che nel complesso funziona ancora oggi. La cittadinanza di Edimburgo dopo vari tentennamenti accolse la proposta e il primo International Edinburgh Festival (IEF) aprì con successo i battenti per tre settimane il 24 di agosto del 1947, con una dotazione di 60.000 sterline, provenienti in egual parte dalla città, dall’Arts Council e da mecenati privati. I primi anni pesentarono al pubblico, nelle sedi della Usher Hall e del King’s Theatre, accanto al teatro (da Lindsay a Peter Brook), grandi orchestre, produzioni d’opera e balletto che venivano soprattutto da Glyndebourne o da Londra (il contralto Katleen Ferrier vi cantò tutti gli anni finché non fu stroncata dal cancro).

 

Nel 1950 Bing passò al Metropolitan di New York, dove regnò incontrastato fino al 1972, mentre la sua linea fu sviluppata dai vari direttori che si succedettero nel primo ventennio, specie George Lascelles, Visconte di Harewood( 1961-65), che puntò a affidare commissioni teatrali e a internazionalizzare il festival. Furono stagioni ricche di ospiti importanti: Maria Callas, Richter, Rostropovich, il Teatro alla Scala con Visconti, Karajan con i Berliner, i Wiener Philharmoniker, Menhuin, il Maggio Fiorentino, il Piccolo di Milano con Strehler, Peppino De Filippo (molto prima di Eduardo!).

Aumentarono anche le spese e sorsero le avvisaglie dei guai finanziari, anche se il festival ha sempre saputo evitare il disastro, perfino nei momenti più difficili. Negli anni sessanta mentre si susseguivano le stagioni ‘all stars’ ,il festival iniziò anche a radicarsi sul territorio. Rimangono storiche le serate con Abbado, Barenboim, il Requiem di Verdi diretto da Giulini con Pavarotti, la contestata visita dell’Orchestra dell’Urss nel 1968 all’indomani dei fatti di Praga, la riscoperta delle opere di Janacek, e una grande fioritura teatrale, fra cui ricordiamo almeno l’Orlando Furioso con la regia di Ronconi (1970), nato a Spoleto.

Dall’altro lato lo Scottish Festival Chorus, inizialmente solo un gruppo amatoriale, divenne uno dei migliori cori europei e il festival – sotto la spinta dei direttori Peter Diamand (1966-78) e John Drummond (1979-83) – si impose internazionalmente con alcune produzioni operistiche nate in loco, dal costosissimo – e contestato – Don Giovanni di Mozart (1973), regia di Ustinov, direzione di Barenboim alla Carmen (1977), con Teresa Berganza, Placido Domingo e Claudio Abbado, all’origine di un’incisione oggi di assoluto riferimento. Negli anni Ottanta e Novanta il festival ha continuato a mettere a segno colpi importanti, il festival Becket (1984) l’Oberon di Weber con la regia del direttore Frank Dunlop (1986), la prima britannica di Nixon in China di Adams (1988), il Sogno di una notte di mezza estate di Britten firmato da Baz Luhrmann (1994), il Ring di Wagner ambientato da Tim Albery nel Regno Unito di Blair (2003), e ancora danza e tantissimo teatro. Il festival appena terminato, percorso dai venti secessionisti, ha visto un nuovo trionfo italiano, con un’opera dedicata alla nascita di una nazione, il Guglielmo Tell di Rossini del Teatro Regio di Torino (in concerto), diretto da Andrea Noseda. La rassegna ha dovuto però lottare a più riprese contro le accuse – soprattutto locali – di elitarismo, ma anche con le impellenti necessità finanziarie, acuite dalle proporzioni della manifestazione e dal recente dissesto delle istituzioni musicali scozzesi.

Tuttavia il festival, che si è dotato da anni di spazi più moderni come il Festival Theatre (1994) continua a finanziarsi, per la metà del suo cospicuo budget, con i soli contributi privati e la vendita dei biglietti, rimanendo un modello in campo internazionale. I fondi pubblici vengono essenzialmente dall’Art Council scozzese e dalla città di Edimburgo. Un tema fondamentale resta ancora oggi il proliferare di manifestazioni collaterali e il continuo espandersi del fenomeno Fringe, che in più momenti in passato ha addirittura rischiato di confondersi con l’IEF e soffocarlo.
Nel 1947 una serie di compagnie scozzesi, escluse dal festival ufficiale avevano infatti fondato una manifestazione parallela, poi alla base del Fringe, una rassegna basata sulla pura ospitalità mediante l’affitto degli spazi per le rappresentazioni, oltre duecento, dispersi per tutta la città. Nei decenni il Fringe, il festival di teatro più grande del mondo, con migliaia di spettacoli ogni anno, si è guadagnato un posto di rispetto nella storia del teatro europeo (la danza arrivò tardi, grazie a Lindsay Kemp), ma è cresciuto in modo torrenziale, dotandosi lentamente di strutture più solide, specie con la direzione di Alistair Moffat, 1976-82, ma mantenendo anche una vocazione anarchica che spesso non si sposa con le esigenze delle rassegne internazionali (vedi la celebre, spaventosa ‘panne’ della biglietteria nel 2008).

Se si citano spesso i nomi di Tom Stoppard, Robin Williams, Emma Thompson, Stephen Fry, Hugh Grant fra le presenze storiche, si dimentica che molti di loro, come Johathan Miller, Dudley Moore, Alan Bennett abbiano debutto in verità nel Festival ufficiale, in una sezione (Beyond the Fringe) nata per contrastare l’invadenza del Fringe stesso. Non si possono però dimenticare le esperienze del Traverse Theatre di Edinburgh, ma neppure le manifestazioni satelliti come il Book Festival, il Television Festival e il Jazz Festival. Discorso a parte meriterebbe il Film Festival, che in verità nasce nel 1930 e vanta la primogenitura su tutti gli altri. Nell’ultimo decennio è anche ripresa la spinta dell’Art Festival, con le mostre d’arte, un filone abbandonato dopo gli anni cinquanta. Difficile dire dove andrà il festival negli anni a venire.

Per i grandi palcoscenici internazionali mantenere la spinta innovativa e coltivare un nuovo pubblico (l’età media dei fedelissimi dell’EIF è piuttosto alta) rimane una sfida impegnativa, ma la prospettiva di mantenere il sistema nel quadro generale delle attività culturali del Regno Unito forse ha fatto tirare un sospiro di sollievo agli organizzatori e a molti artisti, compreso qualcuno che si era schierato per la secessione. A quanto pare il ‘lone piper’ il prossimo anno suonerà ancora, ma pur sempre sotto l’egida di Sua Maestà Britannica.