Nel 2003, quando si svolsero i festeggiamenti per i trecento anni della fondazione di Pietroburgo, il romanzo di Andrej Belyj a quella città intitolato fu riletto, misurato e discusso come il resoconto postremo di un mito che corroborò il grande, irripetibile Ottocento russo di linfe fantastiche, di geometrie screziate e insidiose, di immagini e di visioni anamorfiche, di umori corrosivi, velenosi, malsani. Parve e si disse insomma, in sede di bilancio critico, storico e letterario insieme, che la Palmira del Nord fosse stata eretta non a caso sopra un terreno torbido e paludoso e che la strabiliante impresa architettonica, meraviglia delle meraviglie, contenesse in sé una patologia necessaria, preziosa e perfettamente incistata a un destino, a una condizione spirituale tormentata e tormentosa su cui non poteva che regnare senza soluzione di continuità un mai risolto dissidio tra la luce e la forza della ragione e l’altrettanto potente, irrefrenabile impulso a precipitare (artigliati, stretti e attratti dal ghigno sonoro di oscene sirene) in una cafarnao popolata di ombre indistinte e di fantasmi dal volto cangiante e pur sempre minaccioso e ferale.
Nulla come quelle larghe prospettive, quei ponti, quel lungofiume, quei canali, quelle cattedrali altissime che paiono voler trapanare il cielo, quei palazzi dorati, quei teatri sgargianti – ma non di meno le fumose osterie, le luride stamberghe, le miserabili pensioni, i maleodoranti e umidi sottoscala, gli antri e i sotterranei segreti –, nulla come quello spazio sospeso, insicuro e malfermo si è lasciato decifrare al pari di un arduo geroglifico senza tuttavia rivelare il fondo opaco del proprio scrigno, poco o nulla concedendo persino ai dioscuri suoi, vale a dire ai titanici creatori e circumnavigatori del mito stesso, da Puškin a Gogol’, da Dostoevskij a Belyj, in un percorso durato pressappoco un secolo.
Di un simile scarto hanno dovuto in qualche modo prendere atto, in sede di ricognizione, gli studiosi che vi si sono dedicati, a partire dal valoroso e pionieristico Ettore Lo Gatto nel suo Il mito di Pietroburgo (Feltrinelli, 1960) per poi arrivare, molto più avanti, ad esempio a Solomon Volkov (San Pietroburgo, 1995, tradotto per Mondadori nel 1998) o al ponderoso volume curato da Sergeij Androsov (San Pietroburgo, Corbo e Fiore, 2002).
Il moscovita Belyj (al secolo Boris Nikolajevic Bugàev, 1880-1934) pubblicò il suo romanzo più importante e più celebre dapprima a puntate su un almanacco letterario, tra il 1912 e il 1913, e a seguire, in volume, nel 1916, quasi a simbolicamente voler indicare un tramonto e un annuncio. Perché Pietroburgo – appena tornato in libreria, riproposto nella «Biblioteca» Adelphi (pp. 384, euro  22,00), nella meravigliosa versione approntata nel 1961 da Angelo Maria Ripellino per Einaudi accompagnata da un saggio che ancora toglie il respiro – porta in sé i colori di un tramonto che viene definito spesso, qui, «spietato» e ciò malgrado ineluttabile. È naturale e giusto pensare come questo splendore che dura pochi attimi prima di virare in tenebra attenga alla forma del romanzo, alla sua compattezza, al suo ottocentesco mostrare i muscoli e, insomma, alla sua formidabile tradizione. In Pietroburgo anche i personaggi perdono peso e consistenza, si muovono leggeri e guizzanti come creature di fumo, come Perelà slavi. Il domino in raso rosso che di continuo appare e scompare nel buio degli androni e sui ponti segna il tempo di una velocità nuova e spaventevole. La mascherina che indossa forse non nasconde nulla, neppure l’impotente nostalgia di un centro, di un punto fermo verso il quale fissare lo sguardo. Nel romanzo, è come se gli specchi – questo, e pour cause,interessò e affascinò Vladimir Nabokov – riflettessero figure ormai disossate, impalpabili, gassose, solo uno scabro contorno del niente. Pure, va subito precisato, Belyj non dimentica la cornice storica: Pietroburgo è infatti ambientato nel 1905, nei giorni e nei mesi successivi alla guerra russo-nipponica vinta dai giapponesi, e nel mentre in città si levano venti tempestosi che annunciano l’imminente rivoluzione («le fabbriche erano tutte in terribile fermento; gli operai si erano trasformati in individui loquaci; circolava tra loro la browning; e qualcosa d’altro»). «Scaturita come un miraggio dal fango degli acquitrini per il caparbio volere di un despota», scrive Ripellino, Pietroburgo a quell’altezza «nasconde misere spoglie sofferenti, un querulo mondo di pena», «una rassegna di spettri, un teatro d’ombre» che furtive s’avvicendano in un clima «vaneggiante» e persecutorio – silhouette paranoiche che si braccano a vicenda. La città sa di losco, di verminaio. In giro sciami di «ragazzacci antigovernativi». E quella di Belyj, come spiega il traduttore, è «una scrittura amorfa, sconnessa, traboccante, tutta sgocciolature e incrostazioni, una matassa di impulsi caotici, di ghirigori, di ingorghi limacciosi, di garbugli inestricabili» che si fa strumento plasmabile, perfetto per quella condizione di frattura, di rottura epocale.
È in un simile scenario – affollato di cospiratori, doppiogiochisti, infiltrati, provocatori, polizia segreta – che Belyj suppone l’atto del parricidio. Nikolàj Apollònovic – il protagonista del romanzo che possiede peraltro qualche tratto autobiografico: ad esempio, sua madre abbandona la famiglia per seguire un artista italiano – è o sarebbe un tipico personaggio da «romanzo russo», così come il Senatore Apollòn (il padre, simbolo del potere zarista), il fanatico nichilista Dudkin, Sòf’ja Petròvna (la donna fatale di cui Nikolàj è innamorato) o il sottotenente Sergéj Sergéevic, il marito di lei. Soltanto che qui ogni situazione e ogni gesto virano di volta in volta verso il grottesco, la parodia, l’arlecchinata, il buffo, il comico, la vera e propria farsa. Quasi tutto – e si prenda in proposito il terzo capitolo – si trasforma, mentre si compie, in pochade. Sòf’ja Petròvna vorrebbe essere (ma non può, non riesce) la puškiniana Donna di Picche, l’uomo di Stato e rappresentante del vecchio ordine soffre di emorroidi e le sue ampie conoscenze filosofiche nulla possono contro le apocalittiche allucinazioni che lo estenuano durante i dormiveglia, il terrorista deflagra nelle proprie nevrosi e così via. Di fatto coloro che avvicinano Nikolàj per indurlo a compiere l’attentato contro suo padre non sono che i messi della sua coscienza.
Ricorda Vadislav Chodasevic, nelle sue memorie, che il «delitto contro il padre» (un celebre matematico) fu l’ossessione ricorrente di Belyj. Laureato in scienze naturali e in filologia, seguace di Max Stirner, appassionato di musica, di filosofia, di metrica, di buddismo e di bramanesimo, di discipline esatte, di alcool e di fox-trot, nei due anni (dal 1921 al 1923) visse in un sobborgo di Berlino nella casa di un becchino sita al confine di un camposanto. Aveva aderito alla Rivoluzione d’Ottobre e, una volta tornato in Russia dalla Germania, continuò a scrivere poesie, romanzi, prose ritmiche, saggi (uno anche su Gogol’), libri di viaggio (visitò, tra l’altro, l’Italia) e di memoria. Subì e sopportò, verso la fine della vita, l’accusa di «formalismo». Giusto l’autore di un libro «notturno» come Pietroburgo poteva morire in seguito ai postumi di un’insolazione, forse guardando anche lui verso l’alto proprio dove passa una «macchia di fosforo ardente» che addita un tempo incomprensibile e tutto fatto di scintille.