Non si sono ancora spenti gli echi delle grandi manifestazioni del 25 aprile che arriva oggi la data simbolo della riscossa operaia, dell’autonomia di classe, del senso di dignità del lavoro. Ed è una felice vicinanza quella del 1 maggio con la Liberazione, perché finalmente le riflessioni che vengono spontanee sono quelle sulle grandi questioni. Non solo dell’Italia ma dell’epoca digitale.

All’indomani del grande corteo di Milano, lo scrittore Giacomo Papi osservava che tra le mille voci che si erano levate dai 200 mila, pochissime, se non assenti, erano le voci sullo sfruttamento del lavoro e sulla miserabile condizione dell’occupazione giovanile. E aggiungeva che le bandiere palestinesi erano l’«unico vero collante simbolico e identitario della protesta giovanile». A noi operaisti incalliti viene subito da pensare: ma come, questi ragazzi pretendono di battersi per i diritti altrui e dimenticano o non ne vogliono sapere di battersi per i diritti propri? Poi qualcuno ci suggerisce che la cosa è più complessa. I ragazzi provano un senso d’identificazione col popolo palestinese, lo sentono simile al loro destino. Che è quello di non poter sperare in un futuro.

È vero, la catastrofe climatica ha contribuito a risvegliare la vecchia ossessione del no future ma sarebbe sbagliato sottovalutare il peso che può avere avuto la questione «lavoro» nel produrre questa disperazione.

Perché siamo anche oltre la precarietà, la gig economy, il lavoro povero, siamo entrati in un sistema dove il concetto di «lavoro» non è più legato a un progetto di vita, a un’identità professionale, mentre allo stesso tempo l’esistenza sociale dell’umanità viene sempre più ridotta al mero consumo.

Ma poi qualcuno ci tira per la giacca: «Inutile ripeterle queste cose, guardiamoci attorno. Il lavoro c’era in piazza, eccome, magari era dietro allo striscione Filcams Cgil, pieno di donne e uomini del commercio, della ristorazione, del turismo. Stavano al posto di quelle che negli anni Settanta erano le tute bianche della Pirelli o le tute blu della Breda».
Verissimo, è la forza lavoro della Milano di oggi, quella delle cucine dei ristoranti, delle consegne a domicilio, degli eventi (appena chiuso un Fuorisalone sempre più squallido), la Milano di quelle e quelli che in un anno non riescono nemmeno ad avere cinque giornate coi contributi pagati.

È la Milano degli studi professionali, anche architetti di nome, dove ti tengono in stage e ti fanno firmare disegni coi dati falsificati per ottenere la licenza edilizia. Degli impiegati comunali, delle municipalizzate, che con 1.800 mensili lordi non campano. È la Milano dei marchi della Grande Distribuzione, Auchan, Carrefour, Coin, Decathlon, Despar, Esselunga, Ikea, Leroy Merlin, Metro, Ovs, Pam, Panorama, Rinascente, Zara… che hanno aspettato il 22 aprile per firmare un contratto scaduto a dicembre 2019! E per tutta la durata della pandemia hanno fatto lavorare la gente con contratto scaduto, se accettavano di riconvocare le parti promettevano una miseria, tipo 70 euro, per tirare avanti ancora un anno senza firmare.

Viste da vicino queste storie ti danno un’immagine talmente miserabile dell’imprenditoria e del management che governano questo capitalismo che la parola «antifascismo» che in questo momento scalda gli animi ti sembra quasi una roba da fumetto, perché come fai a pronunciarla e poi non pensare ai tre morti sul lavoro al giorno (dati Inail presentati alla Giornata mondiale della sicurezza sul lavoro)? Come fai a non pensare a Stellantis, alla famiglia Elkann, che espropriano l’Italia di un intero settore strategico? A non pensare ad Armani che vende borse da cinquemila euro che possono aver fatto operai cinesi per qualche euro l’ora?

Come fai a non pensare ai grandi nomi della logistica internazionale (Geodis, Dhl, La Poste) che subappaltano a pseudo cooperative e srl, le quali non pagano l’Iva né i contributi Inps?
L’evasione fiscale in questo paese dipende essenzialmente dal lavoro irregolare più che dai redditi non dichiarati.

Allora, tornando al discorso di prima, non possiamo che concludere dicendo: la bandiera palestinese ha prodotto antagonismo, voglia di ribellione. È necessario, è urgente trasformare questa rabbia in lotta sulle condizioni di lavoro. Perché ancora volta, come nel 1945, si tratta di salvare il Paese, noi stessi, dalla distruzione civile e economica. E forse in questo modo quei giovani avranno un futuro.