Lo spettacolo della catastrofe è l’erotismo ultimo, definitivo della società dello spettacolo. La merce delle merci, quella che le contiene tutte. La catastrofe è la merce più intossicante. Mettere a morte un intero sistema produttivo nel segno di un ritorno del «naturale», visto ovviamente come nemesi dell’economico, solo per riaffermare la propria supremazia spettacolare e narrativa.

Morire come corpo sociale è la forma più raffinata di narcisismo, il cui sotto testo, ovviamente, non fa altro che ratificare, l’unicità del sistema, il quale, persino nell’atto del morire, non cessa di produrre plusvalore, ricchezza. Come in una rinascita continua.

La catastrofe, inoltre, è collettiva. Permette di mettere in scena una società e la sua (ri)fondazione. Nella catastrofe, si ridiscute il patto sociale. La catastrofe, infatti, è la volontà di potenza del cinema; il doppio della natura, la sua riscrittura. San Andreas, che giunge purtroppo a ridosso del terrificante terremoto che ha messo in ginocchio il Nepal, costringendo la distribuzione e la produzione ad una serie di aggiustamenti in corsa in vista dell’uscita, rientra agevolmente nelle casistiche evidenziate.

La catastrofe, come il lusso ultimo della società del consumo, indica la fine dell’orizzonte delle merci come un miraggio: consumare la fine alla stregua di una conferma del proprio potere d’acquisto. Pur inferiore nella cura del dettaglio scenografico al 2012 di Roland Emmerich, il film tocca con grande precisione i nervi scoperti di un mondo, quello occidentale, che avverte sempre più la fragilità delle proprie strutture ma, hybris irresistibile, non può fare a meno di riflettersi nello specchio della fine come atto estremo di paradossale resistenza.

Non a caso il film è costruito su un’idea binaria tanto banale quanto rassicurante nella sua dimensione da telefilm anni Settanta: la famiglia frammentata si ricompone mentre si vive l’apocalisse (idea che la «resurrezione» della figlia del protagonista esplicita in forme incontestabili). Con Paul Giamatti che offre la migliore rilettura del classico ruolo stile Richard Dreyfuss (lo scienziato nerd che avverte tutti della catastrofe) e Dwayne Johnson testimone privilegiato della distruzione globale, San Andreas si fa ricordare soprattutto per una serie di impressionanti set piece. La skyline di San Francisco che oscilla come canne al vento, il suolo che sussulta come un tappeto e, soprattutto, lo tsunami che rovescia un enorme cargo sul Golden Gate Bridge mentre container volano da tutte le parti. Alberto Abruzzese notava «che la permanenza delle convenzioni ha finito per costituire un vero e proprio ingranaggio della macchina innovativa sino al punto che è la stessa convenzionalità a funzionare come energia trasgressiva».
Meglio di Into the Storm ma meno riuscito di Twister, Armageddon o 2012, San Andreas, piccolo film realizzato su scala gigantesca, vanta anche un cameo di Kylie Minogue (irriconoscibile per chi la ricorda in Holy Motors) e una versione dark di California Dreaming eseguita da Sia sui titoli di coda.