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Ha ragione il sottosegretario al Tesoro statunitense Jack Lew. La decisione europea contro Apple ha l’obiettivo di definire una nuova costituzione materiale rispetto al fisco che mette in difficoltà le imprese made in Usa. Al di là del tono vittimistico, Jack Lew sa benissimo che i profitti di Apple, Google, Amazon sono stati alti perché hanno eluso e aggirato il fisco in molti paesi europei. Quello che però non dice è che quei profitti sono stati tassati negli Usa, garantendo agli Stati Uniti entrate per miliardi di dollari e consentendo così a Washington di gestire una crisi fiscale acuita dalle riduzione delle tasse che da Reagan in poi hanno sempre e solo favorito l’uno per cento super-ricco della popolazione yankee. Tuttavia il diktat di Bruxelles contro la «mela morsicata» ha un altro risvolto, dai contorni ancora nebulosi, che fanno però delle tasse un tema centrale nella tenuta o meno dell’Unione europea. Ma anche, e soprattutto, se l’Unione europea decide o meno di diventare un soggetto politico che ha la piena legittimità a prendere decisioni per tutti i paesi che ne fanno parte.

Come è noto, ogni paese del vecchio continente ha le sue leggi fiscali. È dal trattato di Maastricht che viene ventilata la necessità di uniformare le leggi sul lavoro, sul fisco, sui diritti sociali di cittadinanza. Omologazione che è stata cercata, spesso, giocando al ribasso. Eppure sul fisco poco o nulla è stato fatto. Qualche proposta di legge per tassare i giganti della Rete o le potenti multinazionali dell’entertainment, ma niente più. Timidi tentativi di mettere mano a una questione divenuta scandalosa, visto che l’elusione fiscale è diventata una pratica diffusa e comune. La decisione contro la Apple segnala un cambio di strategia, definendo un inedito terreno di scontro tra un organismo sovranazionale e imprese globali che hanno fatto della extraterritorialità il loro punto di forza politica.

Se da sempre il fisco è argomento politico, definisce i rapporti di forza nella società, nell’Europa neoliberista sono stati a favore delle imprese nazionali e globali. Bruxelles ha mandato a dire che quei rapporti di forza non possono continuare a essere così asimmetrici, serve quindi un cambiamento, altrimenti l’Europa dell’austerità salta. Da qui la necessità di recuperare una parte delle risorse monetarie, avviare progetti sociali e di redistribuzione del reddito e mitigare così il dissenso di una popolazione continentale che guarda con sempre più furore ai burocrati di Bruxelles. Si potrebbe dire che Apple è l’agnello sacrificale per contrastare il populismo montante e per definire una costituzione materiale e formale che legittimi una sovranità europea. Dunque non solo amministrazione dell’esistente o istituzione che controlla il rispetto del dogma liberista da parte di tutti i paesi che ne fanno parte.

Certo Bruxelles dovrà vedersela con l’Irlanda che rivendica la propria sovranità nazionale in materia di fisco, quello stesso fisco che ha favorito le multinazionali e fatto crescere le diseguaglianze sociali nell’isola. Ma tanto la sovranità nazionale rivendicata qua e là nel vecchio continente che quella immaginata in qualche stanza della commissione europea rivelano la loro fragilità. E miseria politica. La posta in gioco sul fisco sono i rapporti di forza nella società. Se non si cambiano quelli, possiamo e dobbiamo salutare con favore la decisione contro la Apple. Che mostra i denti e fa l’offesa, fino a quando non avrà trovato il modo per continuare a fare profitti senza pagare le tasse.