Ancora una volta i fratelli Dardenne hanno messo una donna al centro di un loro film, presenza emblematica della società: La ragazza senza nome (La fille inconnue), con il volto speciale di Adèle Haenel è da oggi nelle sale. Con piccoli ritocchi di montaggio rispetto a Cannes dove era in concorso (sette minuti in tutto), una sorta di aggiustamento di ritmo, una ulteriore messa a punto di un lavoro che affondando nelle coscienze degli spettatori deve confrontarsi con il complesso itinerario che fa compiere il film, emotivo, politico ed anche spietato.

Jenny (Adèle Haenel) è una giovane dottoressa stimata dai colleghi, pronta a istruire lo stagista sulla pratica della professione come ad esempio non far prendere il sopravvento alle emozioni. Ed ecco che queste improvvisamente irrompono via via nei diversi personaggi, sotto forma di antichi traumi, soffocate dalla paura, trasformate in sintomi, sfoghi imprevedibili di una società repressa. Il film mette così in luce le reticenze, le paure, le ferite sepolte di uno spaccato di società europea – siamo in provincia di Liegi, dove i Dardenne girano tutti i loro film – più di quanto i respingimenti, i muri, i volti senza nome degli annegati nel Mediterraneo possano trasmetterci.   

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«Abbiamo sempre pensato a una protagonista», dicono i Dardenne venuti a Roma a presentare il film. «Questa dottoressa è un personaggio che ci accompagna da tanti anni, inoltre ci piace lavorare con le attrici. Le donne prendono meglio il polso della situazione, sono loro che misurano la temperatura della società. E quando una donna dice ’no’, lo vediamo anche nei paesi dove ci sono conflitti, si libera dalla condizione di disuguaglianza, dalla dominazione religiosa, dall’illegalità salariale, dalla discriminazione sociale».

Il medico che mettete in scena sembra essere proprio come un confessore, a cui parlare dei segreti più nascosti: «Sì, nella nostra società è come lo psicanalista o il prete. Il segreto professionale lo rende più affidabile di un amico. Per questo nel film c’è molto silenzio, per dare modo allo spettatore di attendere che la verità venga alla luce. Ci interessava misurarci con personaggi che fanno emergere i loro sensi di colpa attraverso il silenzio. Nella professione medica ci sono gesti che si fanno in silenzio, come l’auscultazione, un gesto che dura pochi secondi, ma il film è costruito in modo tale che proprio in quello spazio di tempo emerga il bisogno di parlare».

Il film parla anche dell’esigenza di dare un nome ai tanti morti annegati nel Mediterraneo: «Finché paesi come l’Italia o la Grecia che costituiscono la prima accoglienza saranno lasciati soli, il problema non si risolverà. È tutto il contesto che deve cambiare, bisogna trovare una soluzione a livello europeo che preveda la disponibilità di ciascun paese ad accogliere gli emigrati che fuggono dai paesi in guerra. Se la guerra in Siria avrà ’buon’ esito (diciamo buon tra virgolette trattandosi sempre di guerra) qualcosa cambierà. E le nazioni (come l’Ungheria) che non vogliono sentire parlare di solidarietà non devono più far parte dell’Europa».

Il film segue gli indizi come fosse un’inchiesta poliziesca… «Non abbiamo mai pensato di girare un giallo, non fa parte del nostro modo di pensare fare un film di genere con i suoi codici. Ci interessava questo personaggio, questa giovane dottoressa che decide di far fronte alla sua mancanza per riuscire a perdonarsi e compartire con altri il suo senso di colpa».

In tutto il film si sente il problema che è anche quello «morale della macchina da presa, di quanto ci si può avvicinare a un personaggio: «È un problema di distanza e di empatia, si tratta delle due cose contemporaneamente: da un lato è importante mantenere la distanza e provare profonda empatia per tutti i personaggi, a volte uno o l’altro, a volte tutti e due contemporaneamente, a volte bisogna trovare la giusta distanza. Lo stesso vale per lo spettatore perché ha bisogno di accompagnare il personaggio, ma deve avere il tempo di pensare: io cosa farei?»

La scena finale indica un punto di vista che potrebbe cambiare il nostro atteggiamento nei confronti degli immigrati: «Mai nel film si dice che ci sono bravi immigrati e cattivi bianchi, avevamo fatto lo stesso in Le Silence de Lorna. È un abbraccio che mostra l’appartenenza a un’umanità comune, la condivisione del senso di colpa».