Per far giungere al destinatario la corrispondenza in tempi rapidi, tramite ferrovia, si adottava la spedizione «fuori sacco». Fruivano di tale servizio, escluso dalla procedura della posta ordinaria, i giornali a cui i corrispondenti sparsi nel territorio inviavano articoli e fotografie. Appena finiva di scrivere un pezzo, il corrispondente correva alla stazione e raggiunto il vagone postale del treno in partenza consegnava nelle mani del fattorino l’articolo chiuso nella busta. Era compito del giornale distribuire le buste. Su ciascuna si trovavano prestampate la scritta «fuori sacco» e la testata giornalistica, mentre il mittente faceva seguire al nome della città il sostantivo «ferrovia”; a essere rigoroso, aggiungeva a stampatello la dicitura «urgente». Per esempio: «fuori sacco», «Gazzetta di Parma» (prestampati dal giornale); «urgente», «Parma-ferrovia» (vergati dal corrispondente). La destinazione insomma, come da regolamento, era la stazione. Dove si faceva trovare un incaricato del giornale per ritirare la busta e portarla alla redazione centrale. La spedizione «fuori sacco» si avvaleva della tariffa-stampa riservata ai giornali. Negli anni ’70 il telefax non aveva ancora fatto ingresso nelle redazioni e anche noi, dalla provincia, seguivamo quella procedura per spedire un articolo. Il quale, più che farlo arrivare presto al giornale, ci premeva che godesse di agevolazioni postali. Sebbene la tempestività sia la principale prerogativa lavorando per i giornali, nel nostro caso non era determinante: scrivevamo per un’agenzia di stampa di Roma che si occupava esclusivamente di tematiche culturali, non sottoposte ai ritmi incalzanti della cronaca. Lo stesso direttore raccomandava, invece dell’affrancatura-espresso, di spedire gli articoli in «fuori sacco». Le agenzie di stampa erano centri di raccolta di notizie, fornite dai corrispondenti (oggi da figure molteplici), da smistare celermente ai giornali. Quella per cui collaboravamo diffondeva servizi di «terza pagina» per quotidiani regionali del nord-Italia. Uno di questi era la «Gazzetta di Parma». Accadeva che un articolo, uno solo, diffuso dall’agenzia romana, fosse pubblicato nell’arco di pochissimi giorni su diverse testate giornalistiche. La pagina era sempre la «terza», quella culturale, e anche il contenuto dell’articolo risultava conforme; cambiava ovviamente il blocco della titolazione (scelta da ciascun giornale) comprendente occhiello, titolo, sommario e magari pure catenaccio. Avendo rapporto esclusivo con l’agenzia, un articolo che usciva su cinque-sei testate differenti, poniamo, veniva pagato una volta e basta. Peraltro anche noi l’avevamo inviato una volta e basta, in «fuori sacco».