La storia della nostra seconda repubblica è storia della progressiva incapacità del sistema politico di rappresentare le spinte sociali presenti nella società italiana. I livelli crescenti di astensionismo ne sono il sintomo più evidente. Invece di porre un rimedio a questa deriva, la riforma costituzionale da poco approvata, combinata con la nuova legge elettorale, costituisce il tentativo di istituzionalizzare questo status quo.

La Costituzione repubblicana del ’48, con la sua robusta componente programmatica, sanciva infatti la necessità della rispondenza tra evoluzione della vita politica e conflitto sociale. La legge elettorale proporzionale dal canto suo, messa al servizio di un sistema di partiti altamente rappresentativi delle variegate tendenze sociali in atto nel Paese, era deputata a facilitare il pieno dispiegamento di questo meccanismo virtuoso. Che la qualità dello sviluppo democratico risiedesse nella capacità del sistema politico di rispondere virtuosamente alle spinte dal basso, operanti in una società conflittuale, era chiaro a tutte le culture politiche che la nostra carta tennero a battesimo: non solo alle forze del movimento operaio, o a quelle del cattolicesimo sociale, che nella redazione degli articoli programmatici della Costituzione giocarono la parte del leone, ma anche al liberalismo di Luigi Einaudi.

Ed in effetti, pur nel periodico riemergere di disegni apertamente eversivi dell’ordine costituzionale, per lunghi decenni il disegno dei costituenti mostrò una forte tenuta. Non è possibile comprendere la crisi del centrismo degasperiano senza considerare l’avanzata delle sinistre nelle campagne meridionali nel corso dei durissimi anni del dopoguerra; così come non si intende il passaggio al primo centro-sinistra senza tener presente la prima esplosione di conflittualità nelle fabbriche sull’onda del «miracolo economico»; e non si può ignorare la corrispondenza tra il riformismo parlamentare degli anni Settanta e l’andamento del «lungo Sessantotto». Sullo sfondo, una sempre più completa attuazione del dettato costituzionale.

In questo contesto molteplici e notevoli sono state le avanzate delle forze del movimento operaio e le conquiste delle classi popolari. Fin quasi a giungere, come in tutto l’Occidente, al punto di massima sostenibilità del sistema. La controffensiva neo-liberale degli anni Ottanta a questo si deve, al tentativo di contrastare questa avanzata con l’attacco al salario e alle conquiste sociali, accompagnato dal ricorso all’indebitamento come strumento per cementare per via clientelare il ceto medio ad un ordinamento egemonico che mostrava le prime crepe.

Non a caso chi oggi governa parla di riforme «attese da trenta anni»: attese da quando si è posta l’esigenza ai gruppi dominanti di mettere in salvo il sistema politico dalla sua «eccessiva» aderenza al conflitto sociale. Questa esigenza stava già alla base dell’allarmato rapporto redatto da un pool di avveduti intellettuali conservatori per conto della Trilateral commission sul finire degli anni ‘70. Così come stava (e sta) alla base dei progetti di «grande riforma», la cui necessità improrogabile è da anni periodicamente rilanciata. La modernizzazione come pieno dispiegamento della modernità neo-liberale; la governabilità come prona rispondenza dei governi alle esigenze di quest’ultima.

Il crollo dell’Urss e l’adesione al trattato di Maastricht hanno in qualche maniera reso obsoleto un intero quadro politico e costituzionale, ora completamente da ridefinire: era il momento di passare all’offensiva. Da una parte, il berlusconismo si è fatto interprete vorace di un blocco storico oligarchico ma nuovamente egemone; dall’altra l’opposizione ad esso si è divisa tra un’ala, maggioritaria, trasformista, che ha sostanzialmente introiettato le ragioni dell’avversario, e ha tentato di traghettare nel campo opposto l’intera propria base storica; e un’ala, minoritaria, residuale, che si è limitata a gestire la sconfitta cercando di limitarne i danni, senza però offrire alcuna ricetta alternativa di ricomposizione di un blocco sociale nuovo che favorisse l’avanzata delle forze popolari. L’intera dialettica politica tra i due poli si è perciò giocata all’interno del recinto costruito attorno al sistema partitico dalle élites tecnocratiche, vestali del dogma neo-liberista ed egemoni nelle varie compagini governative succedutesi nel sistema dell’alternanza. Il «vincolo esterno» è stato il vero mito fondante della seconda repubblica.
L’ondata trentennale di vittoriosa «guerra di classe dall’alto» ha bisogno di plasmare un’adeguata cornice istituzionale. Per il pieno dispiegarsi di questo disegno, la vigenza della Carta del ’48 ha rappresentato (e rappresenta) un ostacolo difficilmente aggirabile, nonostante gli assalti massicci ed il riuscito sconvolgimento di gran parte della Costituzione materiale.

Difendere la Costituzione nell’imminente referendum risulta dunque essenziale per ristabilire una corretta dialettica tra sistema politico e conflitto sociale in un quadro democratico ed aperto a sviluppi di emancipazione popolare. Ma di per sé non è sufficiente: occorre lavorare parallelamente alla messa in campo di una proposta politica che si faccia carico di rappresentare le domande popolari e di trasformale in conquiste sociali. In assenza di questo, la Costituzione è destinata a rimanere un guscio vuoto in balia di periodici disegni di restaurazione oligarchica.