Tra i molti film e eventi in arrivo nella Giornata della memoria, il prossimo 27 gennaio, Austerlitz (distribuito dall’indipendente Lab 80) è senza dubbio quello che suscita la riflessione meno lineare sul tema della giornata, le vittime dell’Olocausto, e più in generale sul senso di «memoria» stesso. Il suo autore, Sergei Loznitsa, in Italia quasi sconosciuto ma oggi considerato tra i registi più talentuosi del nostro tempo – era al festival di Cannes col suo doc precedente, Maidan, sulla rivolta ucraina – non racconta una di quelle storie che fanno piangere – e che alla fine fanno anche sentire un po’ più buoni – ma si interroga sul nostro rapporto con gli eventi e i luoghi della storia e le sue ricorrenze.

 
Il titolo, Austerlitz, rimanda al romanzo omonimo di W.G Sebald (Adelphi) – riferimento non casuale e che anzi dichiara in modo esplicito il progetto del cineasta o almeno la sua materia: la memoria, quello spazio labile e insieme così celebrato, i cui movimenti sono incerti, possono cambiare, prendere direzioni impreviste, compiere detour che confondono la narrazione.Un po’ come succede al personaggio di Sebald, il professor Austerlitz, la memoria compie delle scelte a volte (spesso?) arbitrarie, rimuove o quantomeno posticipa e conforma secondo il momento la consapevolezza.

 
Ciò che narra la macchina da presa di Loznitsa è una giornata nei memoriali dei campi di concentramento – il film è girato a Sachsenhausen, 35 chilometri a nord di Berlino – nel corso della quale, come in tante altre, si affollano migliaia di visitatori: famiglie, coppie, ragazzi in gita, gruppi nel caldo di una giornata estiva varcano la soglia con l’«abito» del turista – calzoncini, ciabatte, cappellini, zaini – uguale in qualsiasi posto nel mondo: stesso incedere, stessi gesti, stesse abitudini. Selfie davanti al cancello di ferro su cui campeggia ancora il terribile slogan «Arbeit macht frei», gli auricolari con le informazioni storiche incollati alle orecchie, camminano all’interno di quello che fu un lager dove vennero uccise quattordicimila persone. Anche le guide seguono un rituale, si impegnano a ricostruire aneddoti, talvolta vi uniscono le proprie considerazioni forse per rendere la ripetizione meno monotona.

 
Loznitsa filma, ci fa condividere come spettatori il suo punto di vista, e al tempo stesso però ci fa sentire dentro alle traiettorie dei visitatori. Non è questione di «turismo vandalo», quanto della meccanicità che ritroviamo nel modo di porsi di fronte a qualsiasi «monumento». Ma: le architetture della Storia possono essere semplicemente «monumenti», luoghi neutrali, punti rossi sulle cartine degli itinerari suggeriti dai pacchetti di viaggio? E come mantenere in vita ciò che significano, la Storia che vi si è consumata, quanto hanno significato in un’era, in un preciso contesto?
Il lager in questa forma di consumo diviene un posto qualsiasi, un monumento qualsiasi: una chiesa, una statua, una rovina. Notre Dame, i Fori Imperiali i riti sono identici, identiche le folle che vi transitano. E i loro pensieri?

 
«L’idea di fare questo film mi è venuta perché visitando questi luoghi ho provato una sensazione sgradevole nel mio essere lì. Sentivo come se la mia presenza fosse eticamente discutibile e avrei voluto davvero capire, attraverso il volto delle persone, degli altri visitatori, come ciò che guardavano si riflettesse sul loro stato d’animo. Ma non nascondo di esserne rimasto, alla fine, abbastanza perplesso» diceva Loznitsa alla scorsa Mostra di Venezia dove Austerlitz è stato presentato fuori concorso .
Lo sfondo sonoro del film raccoglie un intreccio di voci, lingue differenti che spiegano la stessa «storia»; mentre agli spagnoli la guida dice della prigione costruita per torturare i prigionieri, le ragazzine di un altro gruppo fanno a gara di equilibrio con una bottiglia di acqua in testa. La guida ricorda Georg Elser l’uomo che cercò di uccidere Hitler, un attentato fallito. Sul prato i ragazzi mangiano, l’insegnante cerca di smuoverli, in coda per entrare nelle baracche qualcuno si continua a scattare selfie. Dentro i visitatori seguono una direzione stabilita, entrano, escono, osservano il macchinario concepito per lo sterminio; dal vetro, laddove è posizionata la macchina da presa li guardiamo, condividiamo il loro tour grazie al treppiede del regista; potremmo essere noi?

 
Loznitsa però – è la sfida più appassionante del suo film – sfugge alla retorica enfatica del giudizio: nel bianco e nero di inquadrature fisse su chi si mette in posa o simula persino di essere prigioniero, sceglie di far scorrere le sue domande. Che, appunto, rimangono aperte, interrogano il senso della museificazione del ricordo, di una «memoria» nella quale i contorni divengono opachi, fluttuano e si confondono, un po’ come accade nell’archivio del presente, nella ricostruzione di quelle storie che produce infine un nuovo oblio.