Frammento di una Crocifissione è una celebre opera di Francis Bacon realizzata nel 1950: al centro del quadro si vedono due carcasse umane urlanti che pendono dal legno di una croce; invece, sullo sfondo della tela lasciata grezza, l’artista ha tracciato, in modo sorprendentemente distonico, la linea azzurra di un pacifico lungomare mediterraneo, con tanto di macchiettistici pedoni e di automobili disegnati a matita. Quel lungomare, scrive Martin Harrison studioso di Bacon e curatore del recentissimo Catalogue raisonné della sua opera, è il lungomare di Montecarlo, meta prediletta del grande artista inglese sin dall’immediato dopoguerra. È per questo motivo che Frammento di una Crocifissione è tra le opere arrivate nel Principato per la sontuosa mostra che, proprio in concomitanza con la pubblicazione del Catalogue raisonné, è stata organizzata al Grimaldi Forum: Francis Bacon La France et Monaco, sino al 4 settembre, catalogo Albin Michel. È una delle poche opere di provenienza museale (viene da Eindhoven) tra le oltre settanta esposte, che invece sono state «prelevate» dalle gelosissime raccolte private: opere quindi in gran parte mai viste, se non addirittura inedite come nel caso dello straordinario Study of a Bull del 1991.
Frammento di una Crocifissione è anche emblema della irriducibile inclassificabilità di Bacon. L’artista che viveva e lavorava nello studio-topaia londinese di Reece Mews non disdegnava il tenore dorato delle giornate monegasche, tra bottiglie di champagne e rovinose incursioni al casinò. Un contrasto che si riflette nella sua pittura, dove spesso un’altissima sartorialità compositiva convive con una fisicità drammatica e scandalosa che non teme di risultare repulsiva: «la mia reputazione è un sacco di merda elegante». Bacon aveva scoperto Montecarlo nell’immediato dopoguerra, grazie alla generosità del suo mecenate e amante di allora Eric Hall: uomo d’affari ricco, con moglie e due figli, che per l’artista britannico aveva lasciato la famiglia. Tra 1946 e 1949 Bacon aveva vissuto e lavorato quasi sempre nel Principato, spostandosi spesso di casa e di studio. È il momento in cui concepisce uno dei suoi cicli più celebri e anche più brutali, le variazioni sull’Innocenzo X di Velázquez: certamente è spiazzante immaginare che il contesto in cui aveva immaginato e dipinto alcuni dei suoi papi urlanti fosse proprio quello di Montecarlo. D’altronde ci sono pochi dubbi che le cose siano andate così: come nota sempre Martin Harrison nel saggio in catalogo, sul retro della tela di una delle varianti si scorge il sigillo del colorificio di Nizza, da cui Bacon si era rifornito, celebre per essere stato il colorificio anche di Renoir e Picasso.
In mostra sono presenti quattro opere della serie sull’Innocenzo X, tra le quali quella meravigliosa di proprietà dell’Art Council di Londra: non fosse per quel sigillo sul retro della tela, queste in teoria non dovrebbero fare parte di un percorso espositivo che mette a tema il rapporto privilegiato tra Bacon e la Francia. Invece proprio da qui comincia la mostra, dopo il breve prologo degli anni trenta, quando Bacon, infatuato dalla mostra di Picasso vista nel 1927 a Parigi, aveva provato a spostare il proprio destino da designer, anche di un certo successo, a quello di pittore. Ma non aveva imboccato la strada dalla parte giusta, troppo arrendevole nel far suo ogni input che venisse da Picasso, piuttosto che da Léger o dai surrealisti.
Nel Catalogue raisonné infatti non risulta più nessuna sua opera tra 1937 e 1943: in compenso quando riemerge nel 1944, Bacon si dimostra già improvvisamente «compiuto», come dimostra Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion, oggi alla Tate Modern, capolavoro di una determinazione senza esitazioni e di una consapevolezza che non teme di essere oltraggiosa. A quel punto Bacon c’è già tutto, ha già definito con lucidità il suo campo, quello in cui avrebbe lavorato per i quasi cinquant’anni successivi.
Dal punto di vista dei riferimenti culturali e geografici quel campo aveva due sponde: Londra e la Francia. Qualche amico lo prendeva persino in giro, imputandogli di essere l’ultimo a pensare ancora a Parigi come capitale dell’arte. Bacon certamente detestava il nuovo primato americano e in particolare l’espressionismo astratto; riteneva Pollock un decoratore, e all’opposto, ironicamente, aveva proclamato De Kooning l’uomo più importante degli Stati Uniti «per aver sfondato l’astrattismo e aver piantato l’immagine sulla tela». Tuttavia era ben lungi da lui qualsiasi intenzione retorica riguardo all’arte che vedeva in Francia. Invitato a un’esposizione collettiva dell’Unesco nel 1946, se ne era uscito con giudizi drastici per tutti, espressi in una lettera scritta al grande amico Graham Sutherland: da Picasso a Braque sino a Balthus, definito «nullo». A Parigi guarda piuttosto Soutine, perché coglie in lui quell’ansia di caricare di intensità le immagini, che è la sola pratica artistica che lo interessi. Stima Giacometti, in particolare il Giacometti disegnatore. Si fa sorprendere da Rodin: in mostra viene proposto un confronto perfetto tra il grande bronzo Muse Whistler, grande modelle (1908), scultura eccitata e potente, e Figure in Movement del 1972.
Ma è con Van Gogh che Bacon ingaggia la relazione più disinteressata e in un certo senso anche più programmatica. La ingaggia attraverso un quadro che non si può vedere, il Pittore sulla strada di Tarascona, distrutto a Berlino dalle bombe della seconda guerra mondiale. Ne dipingerà sette versioni. In mostra ce ne sono due, tra cui quella finale, che è un vero «fuori tema» baconiano. Qui infatti Bacon molla gli ormeggi, si lascia andare a una pittura ardente che sembra divorarlo, proprio come aveva divorato Van Gogh: un capolavoro che l’allestimento esalta in modo scenografico e perfetto. Nel 1988 dipinse anche il manifesto della mostra di Arles per i cent’anni dall’Atelier du sud: di Van Gogh in questo caso Bacon mette a fuoco solo l’ombra gettata sulla strada, come fosse la scia, la macchia della sua anima.
Quanto al rapporto con Parigi era lontanissima da lui l’idea di mettersi sulle barricate della figurazione e di guardare quindi alla capitale francese come a un baluardo di resistenza della pittura. In quella lettera a Sutherland scritta dalla capitale francese nel dicembre 1946, Bacon traccia chiaramente il suo discrimine: «Ho sempre di più l’impressione che nulla accadrà prima che qualcuno non realizzi una nuova sintesi tecnica capace di trasferire le sensazioni nel nostro sistema nervoso». In realtà, scrive Harrison, quel qualcuno c’era e Bacon era consapevole di essere proprio lui.
Se a Parigi, escluso Giacometti, non stabilisce rapporti interessanti con artisti, trova però l’interprete che meglio di ogni altro si dimostra capace di leggere le sue opere. È Michel Leiris, che non ha curriculum da specialista venendo da una formazione da etnologo, e che scrive l’introduzione alla mostra parigina nel 1966 alla Galleria Maeght. Soprattutto Michel Leiris è il regista della grande mostra del 1971 al Grand Palais, la prima dedicata in quella sede a un artista vivente, Picasso a parte. La mostra fu un trionfo e a Montecarlo viene rievocata con il grande Triptych, study of human body, che Bacon aveva dipinto ad hoc, qui appeso un po’ enfaticamente nel vuoto; e viene rievocata anche con Lying Nude in a Mirror, che era stato ispirato da una serie di quadri di Picasso dedicati a Marie-Thérèse Walter (anche in questo caso viene proposto opportunamente il confronto). La mostra parigina è anche documentata da una serie di foto dell’inaugurazione e della cena al Train bleu. Le immagini restituiscono il clima da grande evento e di un successo senza riserve. Bacon s’aggira visibilmente felice e quasi grato, tra i tavoli. Ancora non sa che all’Hotel des Saints-Péres, George Dyer, il suo amico, si era intanto tolto la vita. Giustamente quindi la sala dedicata alla mostra parigina si completa con il ritratto di Dyer dipinto l’anno successivo: lo si vede scendere le scale, che potrebbero essere quelle dell’hotel ma che richiamano inevitabilmente anche la grande scalinata della Corazzata Potemkin, film icona per Bacon: un uomo, un amico colto nello scivolare verso il suo destino.
È un quadro emblematico dell’idea che Bacon ha della pittura. Per dirla con le parole di Leiris, «è una presa nel vivo», anche nel momento in cui deve documentare un attimo di morte. Bacon usava una metafora efficace per spiegarsi. Diceva che la pittura è come una trappola «con la quale poter catturare l’immagine nel suo momento più vitale». Vista la mostra di Montecarlo, possiamo tranquillamente dire che quella trappola continua implacabilmente a scattare