Due angeli sospesi in volo reggono una corona d’oro tempestata di pietre preziose.

La sostengono in equilibrio perfetto, senza poggiarla, discosta appena dalla bionda capigliatura che orna il volto dall’incarnato di perla d’una donna bellissima. Ella è assisa su un trono ricco di intarsi e modanature. Gli angeli volano leggeri come leggere sono le tunichette che vestono, trascorse da refoli che le increspano appena. Un angelo, avvolto in una mussola bianca, ha ali di porpora. Ali color cobalto ostenta l’altro, abbigliato d’una stoffa smeraldina. Si librano nello splendore di una luce d’oro, una luce che permane intatta e si irradia dall’alto e d’attorno, ovunque intensa e senz’ombra, e si riflette sui commessi del pavimento, ne esalta i lucidi marmi e i porfidi.

Suoni celestiali diffondono in tanto fulgore le corde d’una mandola e l’arco d’una viola, aerei nelle mani delicate della coppia di angeli musicanti, in piedi ai due corni del trono. Modulano armonie che – meraviglioso a dirsi – ti pare di udire se muovi lo sguardo sulle sette figure che hai di fronte. I quattro angeli e le tre donne, scandite come sette note che miracolosamente osservi dipinte, mentre vibrano e mandano le risonanze che pure lamine colorate inducono: accordi di colori in sintonia.

Sono i colori dell’abito della donna accomodata in trono, abbigliata d’un bianco broccato fittamente ricamato d’oro e d’una ricca sopravveste a ramages dorati. E sono le vesti delle due avvenenti dame in primo piano, in piedi sull’uno e l’altro lato, volte verso di noi. Hanno luminosi capelli fulvi, nell’una raccolti in composte trecce; nell’altra sciolti, nascosti sotto un velo scarlatto, che appena riesci a intravedere. Adornate in panneggi di damaschi e di velluti dai rossi intensi e dai verdi profondi, i bordi sontuosamente ricamati. La velata tiene in una mano una coppa di balsami profumati. Pare indicare il suo scrigno a noi, mentre ci guarda con espressione suadente, lei Maria di Magdala, la consolatrice. L’altra, la testa reclinata or ora, appare soavemente intenta a leggere un suo libro legato in marocchino, attitudine che le immagini consueta.

Con assiduità, infatti, si dedica agli studi e confonde con la sua sapienza i dotti di Alessandria che discutono con lei, Caterina, e che, infine, si convertono alla buona novella. Fu condannata per questo. Ora l’orlo della sua veste copre la calzatura, ma non occulta, poggiata a terra, una ruota dentata, strumento di supplizio. E lei, per questo, nella destra tiene un ramo di palma, a significare la gloria del martirio. Di un ramo simile si fregia colei che è assisa in trono, mentre, delicatamente appoggiata in grembo, mantiene una torre che, come un tabernacolo, accoglie in un calice la particola consacrata.

Si racconta infatti che in quella torre la giovinetta sia stata reclusa dal padre e nella munita rocca le giunse la parola del Vangelo e si fece cristiana. E narrano che Barbara – questo il suo nome – abbia in quel giorno attraversato, nell’incanto della nuova fede, quelle mura di pietra e il padre allora, di sua propria mano, l’abbia decapitata: in quell’istante un fulmine si abbatté su quell’uomo crudele e lo uccise.

Matteo di Giovanni dipinse nel 1478 la mirabile pala d’altare che tento di descrivere. Essa si conserva nella seconda cappella del transetto sinistro della Basilica di San Domenico a Siena.

Un capolavoro della pittura del Quattrocento. Matteo, con un costrutto compositivo che bene si offre a una riflessione sulle relazioni tra pittura e musica, ci invita a una considerazione sulle tre esemplari identità femminili raffigurate.