Nel turbine delle polemiche sull’assegnazione a Dylan del Nobel per la letteratura, è stato Don De Lillo, uno che il Nobel rischiava sul serio di vincerlo, a ricordare al mondo e alla fazioni belligeranti quei due giorni di 50 anni fa in in cui i pianeti si allinearono e Dylan incontrò la sua ispirazione più alta e feconda, la vetta insuperabile della sua vicenda artistica; i due giorni di inizio estate del 1965 in cui viene creata la più grande, bella, importante, rilevante, straordinaria canzone di ogni tempo, sicuramente di tutto il tempo sino a oggi trascorso, probabilmente anche di quello che verrà.

Succede tutto il 15 e 16 giugno nello studio A della Columbia records a New York. Bob Dylan entra in studio con una poesia di sei pagine (qualcuno dice addirittura venti…) composta in primavera. Ne esce 48 ore dopo con Like a Rolling Stone, una canzone rock di oltre 6 minuti, una cosa inaudita per quei tempi. Un mese dopo, quella canzone uscirà da tutte le radio Usa e sarà il primo grandissimo successo commerciale di Bob Dylan, con ciò intendendo una canzone non solo scritta ma anche cantata dall’artista e non da altri come era già successo con Blowin’ in the wind e Mr. Tambourine Man.

Nei giorni che ne precedettero l’uscita, nell’ambiente già si mormorava che Dylan aveva scritto una bomba, una roba pazzesca, «un pezzo sui Rolling Stones», dicevano alcuni sedicenti bene informati.

No, non erano i Rolling Stones…. Era molto più dei Rolling Stones… Era l’America tutta, sverginata dall’assassinio di Kennedy, era tutto il mondo che cercava un nuovo baricentro, una nuova consapevolezza, un nuovo modo di vivere e pensare; era Dylan stesso; ma soprattutto eravamo noi, ogni essere umano di fronte al disagio del compromesso, della mediazione al ribasso, della disillusione, della caduta, dell’inganno, della sconfitta, di uno specchio che non rimanda più l’immagine in cui ci piaceva rifletterci.

Don De Lillo, lo dice chiaro: «Like a Rolling Stone è un’intera età lunga quarant’anni, incanalata attraverso quella canzone. E poi c’è quel ritornello, ’How does it feel?’, che in quattro parole trasmette ciò che pochi scrittori,poeti, registi o musicisti possono fare. È una cosa straordinaria».

«How does it feel?», come ci si sente? Che effetto fa? È tutto in quella domanda, quattro parole. Non c’è alcuna pietà in quella domanda. E non c’è alcuna solidarietà o complicità, nessuna offerta d’aiuto nella voce che la pone.

È una voce cattiva, da ufficiale giudiziario, da esattore delle tasse. Una voce da stronzo che racconta il tuo fallimento e inzuppa il coltello nella ferita. Ti viene da odiarla, quella voce. Ma non puoi. Perché stavolta carnefice e vittima sono la stessa persona, quella voce è la tua, racconta la storia del Paese in cui vivi. Quel tono che a primo udito è sembrato cattivo, in realtà è solo il rumore del disagio di fronte ai conti che non tornano più, di fronte a ciò che non pensavi di poter essere o diventare e che, invece, irrimediabilmente, sei.

«How does it feel?», «How does it feel?»: lo ripete due volte. E non è un caso. Incalza, non dà scampo, non concede scorciatoie della mente che possano dare riparo. Nessuna possibilità di «signor giudice, un breve rinvio per favore». «Un tempo ti vestivi così bene, offrivi l’elemosina sprezzante, frequentavi le migliori scuole, ridevi degli altri, non ti curavi dei consigli e pure di chi voleva attirare la tua attenzione. Uscivi con gente figa, ricchi sfondati, tipi eccentrici, come quel tipo, quel diplomatico, che andava in giro con un gatto siamese sulla spalla. E adesso? Come ti senti adesso che devi imparare a vivere per strada, a scroccare un pasto, a fare affari con i vagabondi e guardare il vuoto nei loro occhi? Adesso che ti hanno preso tutto e non hai più nulla da perdere, nessun segreto da nascondere? Adesso che sei diventato invisibile, oramai. Che effetto fa? Come ci si sente? Sola, senza un posto dove andare, una perfetta sconosciuta, in caduta libera, come una pietra che rotola via. Like a Rolling Stone».

Di chi parla? Chi è la protagonista? Parla di se stesso o dell’essere umano in genere? Dell’America? Del mondo intero? Oppure di Edie Sedgwick, la musa di Warhol che, a sua volta, sarebbe il «Napoleon in rags» del testo? Nessuno lo sa ma oramai non importa più a nessuno. Quel che importa è l’effetto universale provocato da quel «how does it feel?», da quella domanda sputata a bruciapelo, trasformata nella punta dell’iceberg di un disagio diventato ingestibile, ingovernabile; la rivelazione di una precarietà inedita, improvvisa, che rotola a valle e che sembra senza fline. «Dylan era l’unico ad avere il coraggio di porre certe domande… ’How does it feel to be on your own?’ Si era spalancata una voragine tra le generazioni e a un tratto ci sentivamo orfani, abbandonati al flusso della storia, bussole impazzite, intimamente alla deriva. Dylan sapeva squarciare il velo delle illusioni e degli inganni… Bob era la stella polare, un faro che ci aiutava a districarci in quella giungla che era diventata l’America» (da Bruce Springsteen, Born to Run: L’Autobiografia). È lecito chiedersi: chi lo fa oggi? Chi ci ha posto quella domanda oggi, in questi anni di frontiera e disinganno in cui, di nuovo, ci siamo ritrovati orfani di Padri, Idee e anche Lavoro, spesso alla deriva, non solo intima, ma anche materiale? Non fanno questo i poeti? Poi chi scrive si è ricordato di una cosa lontana, una bella anticipazione del rumore di fondo all’indomani del Nobel a Dylan…

Manchester, Free Trade Hall, 17 maggio 1966. Like a Rolling Stone è uscita da 10 mesi, Bob Dylan è in tour in Inghilterra. Non è un tour qualsiasi. È l’evento. E come se nel Vecchio Continente fossero sbarcati, tutti insieme contemporaneamente, la più affascinante rockstar del momento, il più stupefacente fenomeno da circo del pianeta, la notizia del momento, il presidente degli Stati Uniti, il papa e il più grosso infame della storia dell’umanità , reo di aver tradito le ragioni del folk, della canzone di protesta e del Movimento per perdersi nelle tentazioni della musica elettrificata, del rock delle grandi masse. Tutti nella stessa persona che, per inciso, era ancora un ragazzo del Midwest di 25 anni, non ancora compiuti. Quelli di Balotelli, tanto per fare un esempio.

È più o meno un anno che lo fischiano dappertutto, tutto per questa storia del «tradimento», per quella chitarra elettrica che prima aveva demolito l’immagine del menestrello impegnato nel Movimento e poi anche il Santino in cui volevano trasformarlo. Succede sempre la stessa cosa: il primo tempo dello spettacolo, chitarra acustica e armonica a bocca, sono tutti con lui. Si sentono rassicurati.

Poi, dopo, entra la band, arrivano batteria, basso e chitarra elettrica e iniziano i casini. Qualcuno applaude, qualcuno capisce cosa sta succedendo, altri no. E quelli che non capiscono iniziano a fischiare, anzi a «fare buuuuu». È sempre così con le cose nuove, non è vero Mr. Jones? Adesso siamo arrivati praticamente alla fine dello show, manca un solo pezzo.

La band che lo accompagna si fa chiamare The Hawks. Poi si chiamerà The Band, poi diventerà un gruppo straordinario, poi diventerà una leggenda fissata in un film di Martin Scorsese, The Last waltz, l’Ultimo Valzer. Il chitarrista – che si chiama Robbie Robertson – accenna il giro introduttivo di Like a Rolling Stone, altri 6 minuti e poi «Thank you, goodnight» e tutti a casa. In sala, applausi ritmati (più per disturbo che per consenso), urla indecifrabili. A un certo punto succede una cosa.

Uno del pubblico, probabilmente, si alza in piedi e, sempre probabilmente, si mette le mani a megafono intorno alla bocca. Probabilmente, perché non ci sono immagini. Esiste solo un documento sonoro. Per cui, nessuno sa chi lo dice, come lo dice, ma si sa cosa dice. Quello del pubblico, gli grida: «Giuda!!!!». La gente grida con lui, qualcuno ride. Bob biascica: «I don’t believe you», poi, spavaldo: «Sei un bugiardo!». Allora si gira verso gli Hawks e gli urla: «Più forte! Alzate quel fottuto volume». E inizia a cantare, come se non ci fosse domani: «Uaaans apon e taaaim…». Cinquant’anni dopo quel giorno, gli danno il premio Nobel. Immagino, quasi lo vedo, quel ghigno, un po’ ironico e un po’ rassegnato, sulla sua faccia, qualche centimetro sotto gli occhi celesti, quando qualcuno gli comunica la notizia.